Meditazione 2^ domenica del Tempo Ordinario 19/01/2025

Nei Vangeli secondo Marco, Matteo e Luca i primi miracoli di Gesù sono le guarigioni: per tutta la vita poi Gesù proseguirà la sua attività di guaritore come segno dell’amore e della cura che Dio ha per i suoi figli e le sue figlie. Invece nel Vangelo secondo Giovanni, come abbiamo sentito, il primo miracolo di Gesù consiste nel procurare altro alcol a della gente già piuttosto ubriaca. Una scelta che può lasciare perplessi: lui stesso sembra avere esitato prima di dare questo segno (perché i miracoli, nel Vangelo secondo Giovanni, si chiamano “segni”).
Il fatto si svolge durante una festa di nozze. La vita in Palestina a quei tempi era sicuramente dura e non c’erano molte occasioni per darsi alla gioia: le feste religiose e le celebrazioni familiari erano le uniche possibilità per divertirsi. Da che mondo è mondo in tutte le culture, anche e soprattutto nelle più povere, si organizzano feste per gioire, stare allegri, sfuggire per un po’ alla durezza del quotidiano. Si chiede anche aiuto alla chimica (per secoli e millenni alle bevande alcoliche, oggi purtroppo anche ad altre sostanze) per allentare i freni inibitori e dimenticare tutti i pensieri.
I giovani in modo particolare sono desiderosi di partecipare alle feste, perché sentono più forte il desiderio di essere felici. Non è vero che la giovinezza è l’età della gioia e della spensieratezza: comunque non per tutti e forse nemmeno per molti. È l’età di tanti dubbi e insicurezze in cui ci si domanda tra l’altro se sia veramente possibile trovarla, la felicità, e come si può raggiungerla. Più tardi qualcuno imparerà ad apprezzare il quotidiano fino a esserne felice, gli altri impareranno a non pretendere una felicità continua, un senso di pienezza senza diminuzione. Si cresce, si diventa realisti, anche più avanti può affiorare il dubbio di aver rinunciato troppo presto, di essersi accontentati, di non aver osato abbastanza…
La festa è il segno di questa domanda di felicità che ciascuno di noi si porta dentro: una domanda personale ma non individuale. Da soli si può trovare appagamento in tanti modi, si può essere soddisfatti e contenti di un risultato raggiunto, ma se non hai nessuno al quale poterlo dire, non sei felice davvero, ti manca qualcosa. Anzi, in molte culture si teme l’invidia, il malocchio: essere felici da soli porta disgrazia. Alla festa tutti devono partecipare perché è possibile essere felici solo se si è felici tutti: nessuno deve mancare alla festa. La felicità individualista può diventare anche un idolo: pur di realizzarla per se stessi si corre il rischio di calpestare quella degli altri. A volte si deve scegliere tra essere buoni e essere felici; ma si può essere veramente felici sapendo di non essere buoni, di aver fatto del male?
Alle nozze di Cana è finito il vino: evidentemente hanno bevuto molto più del previsto, con tutte le conseguenze del caso. Potrebbe bastare così, invece quel giorno Gesù inizia a mostrare la sua gloria (cf. 2,11), anche se in realtà pochissime persone vengono a sapere di questo segno prodigioso. ‘Gloria’ in greco sta a significare luce, splendore. Che splendore è questo di Gesù che provvede altro alcol (600 litri!) a un branco di ubriaconi? È lo splendore di un Dio che vuole la gioia degli umani, che fa sì che la festa non abbia fine. La gloria Dio è l’uomo vivente (Sant’Ireneo).
Cerchiamo una gioia che non abbia fine e che non lasci fuori nessuno; una gioia che non sia solo una parentesi e non si spenga con la sazietà; una gioia che non abbia bisogno di aiuti chimici e non tema l’invidia degli uomini o degli dei. Una gioia che non sia disgiunta dalla bontà. Sappiamo che è troppo, che è impossibile, ma allora perché c’è questo desiderio in noi?
A Cana Gesù ci ha fatto intravvedere l’esistenza di un banchetto con un “vino” migliore e più abbondante di quello delle nostre feste, un banchetto – anticipato nella mensa eucaristica – al quale siamo tutti invitati.


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