Meditazione 21^ domenica del tempo ordinario 25/08/2024

Dopo il discorso del Pane di vita, l’evangelista Giovanni ci racconta l’effetto di quel discorso: si direbbe che è stato un completo fallimento. Fino a quel momento molti discepoli seguivano Gesù e moltissima gente lo cercava; da lì in poi resteranno con lui soltanto pochi, pochissimi. A quanto risulta dai Vangeli, non si tratta di un insuccesso momentaneo: l’inizio del ministero di Gesù in Galilea ha ha richiamato grandi folle, ma da quel momento in poi rimarranno con lui quasi soltanto i Dodici e alcune donne. È vero che l’ingresso in Gerusalemme è stato accompagnato da una folla osannante, ma anche quelli lo abbandonarono subito.
Nella sinagoga di Cafarnao, vedendo tutti quelli che se ne vanno, Gesù non si abbatte e non si deprime perché diffidava fin dall’inizio dei facili entusiasmi di chi è passato in poche ore dal tentativo di farlo re a girargli le spalle: «Tra voi vi sono alcuni che non credono. Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano», ma è tutto qui?
Credo che Gesù non si sia abbattuto non solo perché era forte interiormente e perché conosceva la fragilità di chi lo seguiva, ma anche perché aveva un criterio diverso da quello mondano per misurare il successo della sua missione. Per noi – perfino per San Paolo, almeno fino a un certo punto – il successo si misura con i numeri: tanti partecipanti a un’iniziativa, tanta gente presente, tanti consensi, tante “conversioni”, tante vocazioni… uguale a grande successo. Invece per Gesù il successo della sua missione è il compimento della volontà del Padre, manifestare al mondo l’amore di Dio, il dono totale di sé che lo porterà a morire quasi da solo.
Se il successo dipende dai numeri, allora dipende dagli altri e dalla propria capacità di piacere o al limite di sedurre. Se invece il successo è il compimento della volontà di Dio, allora dipende tutto dalla sua grazia e dalla nostra risposta obbediente, dall’accettare la nostra debolezza.
Mi vengono in mente due riflessioni. La prima è il modo in cui affronto/iamo i fallimenti personali: a volte c’è una delusione perché prima c’era un’illusione. Quando l’illusione va in pezzi ci si resta male, ma è anche l’occasione per imparare qualcosa. Il fallimento è un maestro severo, ma bravo: dagli errori riconosciuti si può imparare molto. Se invece in partenza non c’erano illusioni o errori, allora l’insuccesso può comunque aiutare a cogliere l’essenziale, a purificare le intenzioni, a cercare la volontà di Dio senza compiacere se stessi.
Gesù non reagisce alla defezione dei suoi discepoli con un’alzata di spalle; non dice: meglio pochi ma buoni, anche perché quelli rimasti non sono tutti buoni. Gesù sa di essere venuto proprio per questa umanità che non lo capisce e che non può essere salvata solo dalle sue parole, altrimenti la croce non sarebbe stata necessaria. Se una dottrina fosse stata sufficiente, Dio avrebbe mandato un maestro o un profeta, non suo Figlio.
L’altra riflessione riguarda la Chiesa di oggi che vede ridursi le vocazioni e tanti fedeli allontanarsi.
Si potrebbe reagire a questa crisi (e qualcuno lo fa) cercando nuovi modi per “attirare” le persone, così come un’azienda cerca di espandere il proprio mercato. Ma la Chiesa non vende il Vangelo e non deve cercare clienti. Cercare il modo di aumentare il numero dei propri aderenti si chiama ‘proselitismo’ e ci abbiamo messo secoli a capire che non è questa la missione. La missione che Gesù affida ai suoi è diffondere il Vangelo fino ai confini della terra, perciò anche i numeri vogliono dire qualcosa, ma ciò che dev’essere diffuso è esattamente il Vangelo: nient’altro. Gli eserciti con la croce, la finanza cattolica, le adunate oceaniche ecc. non sono il Vangelo e spesso, nel tentativo di sostenerlo, lo ostacolano.
Personalmente sono convinto (e ovviamente potrei sbagliare) che il Signore stia imponendo alla sua Chiesa una “cura dimagrante” per riportarci all’essenziale che è il Vangelo. Tante cose belle del passato non ci sono più ed è umano rimpiangerle un po’, ma la missione è davanti a noi, non alle nostre spalle.


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