Meditazione 5^ domenica del tempo ordinaio 09/02/2025

Nelle letture di oggi troviamo due espressioni simili: Isaia confessa di essere “un uomo dalle labbra impure” e Pietro di essere “un peccatore”. Ambedue però sono chiamati per una missione, anche se si sentono indegni.
Oggi molte persone, specialmente giovani, vivono la loro religione senza farsi di questi problemi, senza tanto pensare al peccato. Anche i libri di spiritualità che si pubblicano oggi spesso evitano questo tema o lo sorvolano velocemente anche perché in passato lo si era molto accentuato. Un certo tipo di spiritualità cercava infatti di instillare nei fedeli un forte senso di colpa e di indegnità.
Si diceva – ed è vero – che i santi sentivano di essere grandi peccatori, ma l’aumento dei sensi di colpa genera soprattutto sofferenza e infelicità, non santità.
Il fatto è che c’è una sottile ma decisiva differenza tra il senso di colpa e il senso di peccato. Il senso di colpa è una sofferenza psicologica che ci avverte quando facciamo qualcosa di male. Se funziona bene è un po’ come il dolore fisico: un campanello d’allarme per evitare che ci facciamo altro male. Ma come nel caso del dolore fisico, ci può anche essere un dolore patologico, inutile e dannoso: ci possono essere dei sensi di colpa esagerati e immotivati che schiacciano, rendono infelici e non aiutano a progredire, anzi paralizzano perché oscurano il volto di Dio facendoci credere che lui ci voglia condannare e che noi siamo irrimediabilmente perduti. Anziché essere “gioiosa notizia”, il Vangelo diventa minaccia opprimente e tutte le parole pronunciate e scritte per la nostra salvezza risuonano come una sentenza di condanna.
Il senso del peccato, invece, è diverso: è collegato anche alle colpe e agli errori, ma lo si prova solo nei confronti di Dio. Un non credente può avvertire un senso di colpa, ma non di peccato.
Peccare significa fare scelte diverse dalla volontà di Dio che vuole il vero bene nostro e degli altri.
Significa non fidarsi di lui, rifiutarsi alla relazione con lui, distogliere il nostro sguardo dal suo per poter fare a modo nostro. Perciò, mentre la colpa richiede espiazione – e per il senso di colpa patologico l’espiazione non basta mai – il peccato ha bisogno della riconciliazione, di ristabilire un rapporto. In alcuni (pochissimi) passi del Nuovo Testamento si paragona per certi aspetti la morte di Gesù a un sacrificio di espiazione, ma molto più spesso si dice che Gesù ha dato la sua vita per riconciliarci con il Padre: all’umanità che sfugge e si allontana da Dio credendolo nemico della propria felicità, Gesù mostra il volto di un Dio che ama fino a donare la vita, che perdona anche a chi lo odia, lo insulta, lo tortura e lo uccide. Allora, certamente, davanti a una tale manifestazione di amore, si fa più intenso il dispiacere per i nostri peccati, per esserci allontanati da lui, per non aver creduto in lui, ma è il dolore di chi si scopre perdonato, accolto e riconciliato, non di chi si sente perduto.
Dopo la pesca miracolosa Pietro si sente indegno di stare vicino a Gesù, ma da quel momento in poi non lo lascerà più. Sulla via di Damasco Paolo scopre di avere perseguitato e bestemmiato il Cristo di Dio, ma da quel momento in poi annuncerà che se c’è stato perdono per lui, allora c’è perdono per tutti, tutta l’umanità è chiamata a riconciliarsi con Dio: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!» (2 Cor 5,20).
Il Vangelo è gioiosa notizia di salvezza: ci rivela il nostro peccato, la nostra lontananza da Dio e ci annuncia che siamo perdonati, accolti e riconciliati. Dio non vuole che siamo servi impauriti, con lo sguardo a terra per la vergogna, ma che ricambiamo il suo sguardo, per abbracciarci come figli amati.


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