Il Vangelo di oggi ci ricorda il comandamento nuovo che Gesù ci ha lasciato nell’ultima cena: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». È un comandamento così elevato, mi sembra così difficile metterlo in pratica, che molto spesso lo rimuovo, me lo dimentico, e forse non solo io. Quando faccio l’esame di coscienza non mi viene quasi mai in mente, ma penso piuttosto ai dieci comandamenti che mi sembrano un po’ più “alla mia portata”. Eppure il discorso dell’ultima cena occupa ben cinque capitoli su ventuno, quasi un quarto di tutto il Vangelo secondo Giovanni, e il tema principale, ripetuto continuamente, è proprio l’amore. Un amore non solo sentimentale, ma molto concreto, come quello di cui parla un altro Vangelo, quello secondo Matteo: dar da mangiare all’affamato, accogliere lo straniero, visitare chi è malato… prendersi cura di chi ha bisogno di aiuto, di ascolto, di una buona parola. L’evangelista Luca direbbe: usare misericordia, come Gesù che si è preso cura dei malati, dei deboli e dei peccatori. Noi non possiamo fare i miracoli, come lui, ma a volte sì, perché in certi casi l’amore ha fatto dei veri miracoli, ha trasformato completamente delle situazioni che sembravano senza speranza.
Ma come si fa ad amare come Gesù? Non è un’impresa impossibile? A volte è difficile amarsi perfino in famiglia, tra coniugi, tra fratelli, e se poi pensiamo a certe persone difficili, o addirittura a quelle che ci hanno fatto o ci fanno del male, come si può amare come Gesù?
Se lo chiediamo solo alla nostra volontà, ferita e appesantita da tanti condizionamenti e limiti, è davvero una impresa impossibile. Ma dobbiamo tener presente una cosa. Quando il Signore dice «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi», quel “come” (in greco: kathòs) vuole dire anche “siccome”, “dal momento che”. Perciò il comandamento nuovo è da capire così: «Dato che io vi ho amato, fino a dare la vita per voi, anche voi amatevi gli uni gli altri». Il comandamento è nuovo perché Gesù ci ha dato il motivo per amarci tra noi (un motivo che prima non c’era): non perché siamo tutti belli, buoni e bravi, ma perché lui ci ha amati tutti, così come siamo.
Prima di pensare che devo amare questo prossimo – talvolta così poco amabile – devo ricordare che il Signore mi vuole bene, mi ha scelto, mi vuole vicino a sé. Quando ero giovane credevo di essere stato io a scegliere di essere cristiano e poi diventare prete. Un po’ alla volta invece ho capito che gli appartengo perché mi ha voluto lui: non so perché, ma mi ha amato, scelto e dato un incarico. Ognuno di noi è cristiano perché il Signore lo ha scelto e gli ha affidato una missione.
Molte persone, anche credenti, pensano che sia presunzione credere di essere speciali agli occhi di Dio: siamo così tanti su questa terra che abbiamo la tentazione di credere che Dio ci veda quasi tutti come tante formichine tutte uguali e che abbia cose più importanti di cui occuparsi rispetto ai nostri piccoli problemi. Invece siamo importanti e amati, e questa convinzione, questa fede, può cambiare il modo in cui vediamo il nostro prossimo, soprattutto coloro che condividono la nostra stessa fede. Infatti il discorso di Gesù nell’ultima cena riguarda principalmente la comunità dei suoi discepoli; questo non significa che non si debbano amare i non cristiani, ma che la prima testimonianza della verità del Vangelo, il punto di partenza della evangelizzazione, la “prova” che in Cristo c’è la salvezza, è l’amore reciproco tra coloro che hanno creduto all’amore del Signore.
Considerare le sorelle e i fratelli, anche quelli che non ci sono “simpatici”, come persone amate da Gesù, suoi amici per i quali ha dato la sua vita, come per noi, ci aiuta a vederli con occhi diversi, a non vedere solo i loro difetti e i loro errori, ma ad amarli “siccome” lui ha amato noi.
Meditazione 5^ domenica di Pasqua 18/05/2025
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