Meditazione 2^ domenica di Quaresima 25/02/2024

Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere un testo del cardinale Martini che parla della consolazione e si conclude così: «La consolazione è la luminosità del Cristo risorto diffusa nell’esperienza».
Pensando alla trasfigurazione di Gesù, alla sua luminosità sul Tabor, mi sono tornate in mente queste parole. Ma cosa c’entra la consolazione con la trasfigurazione? E, prima ancora, che cos’è la consolazione?
Il cardinal Martini ne parlava spesso e anche Papa Francesco lo fa perché sono entrambi gesuiti e il loro fondatore, Sant’Ignazio di Loyola, basava tutta la sua dottrina riguardante il discernimento spirituale sulle consolazioni e le desolazioni dell’anima.
Nella mentalità comune la consolazione è considerata qualcosa di occasionale, legata a situazioni difficili come il lutto. Il bisogno di essere consolati sembra quasi un segno di debolezza, mentre invece il Nuovo Testamento la considera come realtà fondante dell’esperienza cristiana e lo Spirito Santo è chiamato il Paraclito, il Consolatore.
Il cardinale Martini la definiva la gioia profonda, intima che viene dall’unione con Dio, il riverbero luminoso, gioioso della comunione con Lui: «Pensiamo alla gioia che vediamo trasparire dagli occhi di persone particolarmente sante, quel non so che di pace, di serenità, di tranquillità anche nella sofferenza. È il gusto del culto di Dio, il rapporto con Dio vissuto con gaudio».
La consolazione è appunto quella gioia interiore che viene da Dio, che va distinta dei puri stati di entusiasmo naturale e che può addirittura coesistere con quelle che San Paolo chiamava le “tribolazioni”: le prove, l’aridità, le tentazioni, la derelizione, la croce. «Tuttavia non a questo l’uomo è chiamato: è chiamato alla luminosità di Cristo risorto».
Gesù si è trasfigurato mentre pregava (anche se è l’evangelista Luca a rivelarlo, non il Vangelo di Marco che leggiamo in questa domenica): la sua intima comunione con il Padre, comunione beata e beatificante, si è trasmessa in qualche modo anche ai tre apostoli presenti, i quali avrebbero voluto prolungarla all’infinito: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mc 9,5). Ma il fine della consolazione non è quello di rinchiudere chi la sperimenta in un giardino incantato, fosse pure l’Eden: la consolazione spinge chi la sperimenta a discernere quasi per connaturalità i valori evangelici e quindi a vivere il regno di Dio, a vivere secondo la volontà di Dio in modo gioioso, luminoso. Per questo la consolazione ha anche altri nomi: «in certi periodi della storia della spiritualità è stata chiamata “fervore” oppure “devozione” cioè prontezza gaudiosa e spontanea con cui ci si dona a Dio».
Perciò la consolazione, la luminosità di chi sperimenta la gioia che viene da Dio, non è un fenomeno accessorio: trascurandola si rischia di perdere sia la motivazione sia la forza che sostiene tutta la vita cristiana. «A volte, una certa cultura pseudo-spirituale ci fa credere che ciò che conta è fare il proprio dovere, essere leali e giusti». Ma fare il proprio dovere a denti stretti o addirittura controvoglia non è un punto di arrivo, anche se a volte non si riesce a fare di meglio: ciò che favorisce davvero la venuta del regno di Dio sono le azioni di chi è pervaso dalla consolazione che viene da Dio, quelle che portano – per così dire – il marchio di fabbrica divino, quelle che trasmettono la gioia del Vangelo per contagio e toccano il cuore.
Contemplando la trasfigurazione del Signore, desideriamo essere pervasi anche noi da questa luminosità, da questa gioia interiore che si irradia anche all’esterno e trasmette il gusto e la passione per il Regno di Dio.
Dopo avere annunciato la sua futura passione Gesù ha fatto vivere ad alcuni suoi discepoli questa esperienza straordinaria di consolazione e di luce, per far loro comprendere che la croce non è il punto di arrivo finale, ma è il passaggio (Pasqua) verso la luce e la pienezza della gioia.


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