Meditazioni

Meditazione 1^ domenica di Avvento 03/12/2023

Con la prima domenica di avvento inizia un nuovo anno liturgico: per me è un invito a ripartire, a ricominciare, a non adagiarsi su quel che si è già fatto di positivo o di fallimentare. Specialmente in questo tempo in cui nella Chiesa e nelle parrocchie tutto sembra cambiare, non dobbiamo scoraggiarci guardando a un passato idealizzato, ma dobbiamo proseguire il cammino verso il pieno compimento che è il ritorno del Signore alla fine dei tempi. Ma cosa significa in concreto?
Nel brano di questa domenica il Signore ci invita a vigilare in attesa della sua venuta e lo fa con diversi verbi all’imperativo: “guardate” (v. 33), “restate svegli” (v. 33), “vegliate” (vv. 35 e 37) che stanno a significare un atteggiamento attivo, il contrario della passività rassegnata, del “dormire”.
Anche se questo nostro tempo spesso è carico di difficoltà e incertezze non lo dobbiamo subire, non dobbiamo fuggire dal nostro impegno quotidiano. Infatti il brano dice anche che il Signore ha dato “ai suoi servi l’autorità, a ciascuno la sua opera” (v. 34): ciascuno ha ricevuto un’autorità che significa alla lettera “il potere di far crescere”, un’autorità che si realizza in un’opera concreta da svolgere, anche se dovesse sembrare piccola ai propri occhi rispetto ai bisogni e ai problemi del presente. Non c’è solo il “portinaio” (v. 34), al quale è affidato un compito particolare: esiste una diversità di doni e di responsabilità, ma nessuno è senza autorità e ciascuno ha un’opera da portare avanti.
Mi torna in mente allora quel che diceva Sant’Antonio del deserto, ormai novantenne, quando qualcuno gli chiedeva: «Padre, cosa fai oggi?». «Oggi ricomincio». Anche se aveva già fatto tanto e anche se era ormai vecchio, ogni giorno ricominciava da capo la sua preghiera, la sua ascesi, la sua risposta alla chiamata del Signore. Però non diceva: “Continuo a fare quel che ho sempre fatto”, ma “Ricomincio”, e questo vuol dire che ripartiva con l’umiltà di chi è ancora disposto a imparare ed è aperto alle sorprese che si possono incontrare lungo il cammino. Non credo volesse rinnegare o dimenticare tutta l’esperienza accumulata fino a quel momento, ma non se ne faceva un alibi per rassegnarsi davanti ai problemi. Quelli che cominciano non dicono mai: “Già visto”, “Già fatto”, “Impossibile”. Quelli che cominciano sperano, immaginano, ci provano, e così dovrebbero fare anche quelli che ricominciano.
Il Signore ritornerà e concluderà la storia del mondo, ma prima di allora ci sono ancora molti avvenimenti e cambiamenti da vivere e ogni generazione – e ogni persona – è chiamata a fare la sua parte, non aspettando passivamente che il tempo trascorra.
Nei momenti più critici della nostra vita e della vita delle nostre comunità bisogna guardarsi dallo scoraggiamento che rischia di far sprecare anche le poche forze rimaste: questo brano ci dice che tutti abbiamo un’opera da compiere e che a tutti è chiesto di vegliare, di non cadere nella passività. Ma non si tratta solo di stringere i denti ed esercitare la forza di volontà: l’avvento ci dice che non solo il Signore ritornerà, ma che ci viene incontro anche oggi e domani. La nostra opera è in realtà la sua opera e nella fedeltà al nostro dovere quotidiano ci è dato di sperimentare il suo aiuto e di aprirci alle sue sorprese.

Meditazione Cristo Re 26/11/2023

In questa solennità di Cristo Re dell’universo, ultima domenica dell’anno liturgico, leggiamo la terza e ultima parabola del capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo: la parabola del giudizio universale.
Mi ricordo di una signora che ho conosciuto, morta diversi anni fa, che non riusciva ad accettare l’idea del giudizio di Dio perché, se ho capito bene, lo sentiva come un qualcosa di estraneo, mentre le riusciva più facile accettare l’idea che ciascuno potesse arrivare a un giusto giudizio sulla propria vita. D’altra parte, era una psicologa rogersiana e con tutte le persone, non solo con i suoi clienti, si metteva in relazione con un atteggiamento di accettazione incondizionata, di non giudizio, aiutandoli semmai a formulare essi stessi una valutazione delle proprie azioni.
Questa sua obiezione mi è rimasta dentro e forse mi aiuta a capire un po’ meglio il giudizio di Dio.
Che alla fine ci sarà un giudizio di Dio è affermato in tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, ed è un’esigenza insopprimibile dell’umanità di fronte a tutte le ingiustizie di questo mondo: ci dovrà essere alla fine una parola che renda giustizia a tutte le vittime e dica cosa è giusto e cosa non lo è stato. D’altra parte, però, non si può pensare che giusti e ingiusti siano due categorie di persone distinte e separate: il confine tra giusto e ingiusto di solito passa dentro di noi, non fuori.
Ci viene incontro allora, insieme alla prima lettura, proprio la parabola di oggi: Gesù si attribuisce in essa il titolo di Re e di Figlio dell’uomo (che nel Libro di Daniele significa proprio “re universale”) ma anche il titolo di pastore. Nella prima lettura Dio stesso si definisce pastore e descrive così la sua azione: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri» (Ez 34,16-17). Prima di esercitare il giudizio, il Signore esercita la cura, si prende cura di ciascuno di noi in molti modi e uno di questi, forse il principale, è aiutarci a capire cosa ha valore e cosa non ne ha, cosa è giusto e cosa non lo è. Anche la parabola di questa solennità dobbiamo considerarla come un gesto di cura nei nostri confronti: il giudizio sulla nostra vita non sarà un esame a sorpresa, ma fin da ora il Signore cerca di aprire i nostri occhi alla sua verità che è la compassione e la misericordia. Noi crediamo di saper distinguere il bene dal male e in effetti fino a un certo punto ci riusciamo, ma solo fino a un certo punto, perché la maggior parte dei nostri peccati, delle nostre contraddizioni all’amore fraterno non è originata da odio o altre tendenze cattive, ma si tratta più spesso di azioni mancate per indifferenza.
C’è un salmo che dice: “Beato chi discerne il povero e il misero” (Sal 41,2): il vero discernimento, quello più importante è proprio saper vedere nell’altro e nelle sue necessità l’appello alla nostra conversione, la presenza del Signore che ci illumina su ciò che ha valore ai suoi occhi.
La parabola che abbiamo ascoltato è appunto una parabola, un modo di esprimersi che ci invita a pensare e ad agire diversamente da come siamo abituati. Il giudizio di Dio non avverrà solo alla fine dei tempi, ma si compie anche adesso: il Signore si prende cura di noi e ci aiuta a capire e desiderare ciò che è bene, ciò che è importante, ciò che ha valore.

Meditazione 33^ domenica del tempo ordinario 19/11/2023

Dopo che abbiamo letto, domenica scorsa, la prima parabola del cap. 25 del Vangelo secondo Matteo, oggi leggiamo la seconda. È la famosissima parabola dei talenti. La conosciamo tutti, credo, e conosciamo anche l’interpretazione che ne viene data di solito, dalla quale prendono il nome perfino i talent show: i talenti sono diventati, nel linguaggio comune, le capacità personali, le abilità, i “doni” che ciascuno ha ricevuto alla nascita e che poi, si spera, ha sviluppato nella vita.
Il talento, però, nell’antichità era una quantità di metallo pregiato usato come moneta, ma non al mercato: a seconda dei tempi e dei luoghi poteva andare da 25 a 60 kg di argento o di oro.
Serviva quindi per fare grossi affari, non per fare la spesa.
Il padrone della parabola distribuisce i suoi notevoli averi a tre servi secondo le loro capacità, ma non dà loro alcun ordine e poi parte per un viaggio dal quale avrebbe anche potuto non tornare, perché i viaggi erano molto pericolosi nell’antichità.
Invece torna, e quando torna scopre che due servi, quelli più capaci, durante la sua assenza si sono messi in affari, con i suoi soldi! Avrebbero potuto perdere il capitale, invece gli è andata bene e lo hanno raddoppiato. Ovviamente il padrone è molto contento di vedere moltiplicati i suoi soldi e decide di promuovere questi due servi intraprendenti a più alti incarichi, anche se hanno rischiato le sue sostanze.
Il terzo servo, meno dotato e meno sveglio degli altri due, ma onesto, non è scappato con i soldi, ma non ha nemmeno voluto rischiare: se gli affari fossero andati male e avesse perduto il capitale, chissà cosa gli avrebbe fatto quel padrone che si rivela essere avido e severo. Invece di essere contento perché il suo servo non è scappato con la cassa, si arrabbia moltissimo con lui perché non gli ha procurato nessun guadagno, nemmeno un interesse bancario. Da questo capiamo che il padrone della parabola non è Dio: è proprio un padrone umano, e neanche dei migliori, ma dal suo punto di vista di capitalista non ha tutti i torti. Ha dato ai suoi servi la grande opportunità della loro vita per dimostrare il loro valore: «Prendi ‘sti soldi e fammi vedere di cosa sei capace!», ha detto. O meglio: non l’ha detto, ma avrebbero dovuto capirlo lo stesso.
Due servi hanno colto al volo l’occasione e hanno fatto carriera; il terzo ha rinunciato in partenza e per questo è stato punito con una severità che a noi non può che apparire eccessiva, ma il fatto è che ha perso la grande occasione della sua vita, ha perso tutto perché non ha voluto rischiare.
Io penso a questo servo e me lo immagino un po’ arrabbiato e offeso perché ha ricevuto solo un talento, mentre gli altri ne hanno ricevuti di più. Dato che il padrone lo ha considerato meno bravo degli altri due e gli ha affidato un solo talento, decide di non rischiare e di limitarsi a restituire quel che ha ricevuto. «Hai deciso che non sono bravo come gli altri? Allora, visto che non hai stima di me, non faccio niente». E per giustificarsi, alla fine cerca di dare la colpa alla severità del padrone: è sempre colpa di qualcun altro se non traffichiamo i nostri talenti.
Allora, cosa mi dice oggi questa parabola?
Siamo nel capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo che parla del ritorno del Signore e di come bisogna impiegare il tempo dell’attesa. Di sicuro non bisogna aspettarlo senza far niente.
Io personalmente sento negli ultimi anni la tentazione di rimpiangere l’autonomia, la salute e gli altri talenti che ho perso e soprattutto quella di rinunciare a trafficare quel che mi è rimasto, anche perché il ministero pastorale si fa sempre più difficile col passare del tempo, e non solo per me.
Credo che la tentazione di gettare la spugna sia piuttosto comune con l’avanzare dell’età perché le forze diminuiscono, ma vedo che oggi anche molti giovani sono tentati di essere rinunciatari, poco intraprendenti, forse perché credono di avere poche opportunità. È facile recriminare perché le risorse sono poche, perché gli altri non ci capiscono, perché siamo vittime di ingiustizie…
Magari è anche vero, ma non è tutto qui: abbiamo comunque più risorse e possibilità di quel che pensiamo. Non abbiamo ricevuto ordini precisi su quel che dobbiamo farne: siamo stati affidati alla nostra libertà, possiamo fare il bene, il male o anche niente, ma fare niente è uno spreco, è perdere la grande occasione della vita che è la vita stessa.
Questa parabola così dura il Signore Gesù l’ha raccontata per aiutarci ad attendere il suo ritorno nel modo giusto: lui non è un padrone avido e severo, ma siamo noi che rischiamo di sprecare le occasioni e i “talenti” che lui ci dona.

Meditazione 32^ domenica del tempo ordinario 12/11/2023

Stiamo vivendo le ultime domeniche dell’anno liturgico e le letture cominciano già a preannunciare il tema dell’avvento: la venuta del Signore, il suo ritorno glorioso. Le tre parabole del capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo ci aiutano a capire come ci dobbiamo preparare a questo evento.
Quella di oggi, la prima delle tre, trasmette un messaggio molto semplice: l’attesa potrebbe essere lunga, ma dobbiamo prepararci oggi, non domani; non più avanti, ma proprio adesso.
Le ragazze della parabola non sono rimaste sveglie ad aspettare lo sposo: si sono addormentate tutte e dieci, ma alcune erano già pronte quando lui è arrivato, mentre le altre hanno cercato di correre ai ripari quando ormai era troppo tardi. Bisognava prepararsi prima.
Mi ricordo di quando sono diventato parroco, quindici anni fa: le prime settimane sono state a dir poco frenetiche con tutti gli adempimenti burocratici urgenti in curia, in banca, in posta… perfino in prefettura! Guidato da don Cesare, io volevo andare a trovare gli ammalati della parrocchia, lo sentivo come un dovere importante, ma passavano i giorni e non riuscivo proprio a trovare il tempo per farlo perché c’erano troppe cose urgenti che non potevano aspettare: l’anno pastorale stava iniziando e non c’erano abbastanza catechisti, persone e gruppi volevano incontrarmi, i lavori di restauro della chiesa dovevano cominciare… Quando finalmente, ma raramente, riuscivo a tirare il fiato, non era l’ora giusta per entrare nelle case dei malati. Insomma: le cose urgenti passavano sempre avanti a quelle importanti.
Ci sono nella vita dei periodi così, è quasi inevitabile, ma se succede spesso o addirittura sempre che la nostra agenda gestisce noi (invece del contrario), se non troviamo quasi mai il tempo per ciò che è più importante, questo la Bibbia lo chiama “stoltezza”.
Che cosa è importante? Credo che la risposta a questa domanda sia diversa per ciascuno di noi e magari cambia nelle diverse fasi della vita di ciascuno. Un imprenditore/trice, uno scienziato/a, un insegnante, una suora o un frate, una coppia di genitori… hanno priorità diverse in situazioni differenti. Però può succedere che una persona trascuri alcuni suoi doveri importanti per paura, per ambizione, per pigrizia, per avidità o per tanti altri motivi che spesso non vogliamo ammettere.
Inoltre, le persone che godono di un certo benessere oggi hanno tantissime possibilità di vivere esperienze interessanti, piacevoli o addirittura esaltanti. La pubblicità commerciale ogni giorno si incarica gentilmente di ricordarci che potremmo migliorare il nostro aspetto, andare in crociera, fare sport o guidare belle automobili su strade sempre deserte. A qualcuno può venire il dubbio di stare sprecando la propria vita se non approfitta di queste possibilità e in effetti, se ne abbiamo la possibilità, è bello coltivare un hobby, ma questo non significa che si debba o si possa correre dietro a tutti i piaceri che la vita in teoria può offrire.
Quando incontro i parenti di una persona defunta, della quale devo celebrare il funerale, in genere mi parlano dei suoi rapporti con i familiari e gli amici, del suo lavoro e di quello che le piaceva davvero, non dei soldi che ha accumulato o dei titoli che ha collezionato: quando si va incontro al Signore per entrare nella pienezza della vita ci accorgiamo di ciò che ha realmente valore.
Accorgersene prima, e agire di conseguenza, è ciò che la Bibbia chiama “saggezza”.
È saggio chi sa scegliere come impiegare il proprio tempo e le proprie capacità orientandoli al bene, senza farsi suggestionare o condizionare da ciò che la Bibbia chiama “vanità”, da quel che non ha valore. È saggio chi sa imparare dai propri errori e sa ascoltare i consigli e le correzioni di chi gli vuol bene. È saggio chi vive con responsabilità il presente affidando a Dio il passato e il futuro, per non farsi condizionare dai rimpianti o dalle paure. È saggio chi non dimentica che il tempo della vita è limitato e incerto e ne trae le conseguenze per il tempo presente.
Oggi, non domani.

Meditazione 31^ domenica del tempo ordinario 05/11/2023

Quella che ascoltiamo oggi purtroppo è una di quelle pagine del Vangelo che sono state prese meno sul serio.
Si parla dell’autorità. ‘Autorità’ significa “far crescere”: è autorevole, è un’autorità chi fa crescere le persone, chi le aiuta a sviluppare le loro potenzialità. Far crescere gli altri richiede un genuino interesse per loro e un grande spirito di servizio: è necessario mettere un po’ da parte se stessi, i propri bisogni e desideri per fare posto a quelli degli altri. È quello che fanno i bravi genitori e anche quei “capi” che cercano il bene delle persone loro affidate.
L’autorità comporta un certo potere, ma purtroppo il potere tende a corrompere, e il potere assoluto – come è quello religioso – può corrompere assolutamente.
Negli ultimi anni si è saputo di abusi di ogni tipo commessi da sacerdoti e altri leader religiosi: ci chiediamo come sia stato possibile. È stato possibile anche perché queste persone erano figure rispettate, ammirate, considerate superiori agli altri esseri umani. Quel che comandavano era legge, era compreso come fosse volontà di Dio, anche quando era tutto il contrario. Da quando ho scritto il libro sull’abuso spirituale mi hanno scritto e telefonato tante persone per raccontarmi quel che hanno subito da parte dei loro leader religiosi. Quanto dolore, e quanta umana superbia!
Gesù sapeva già che alcuni suoi discepoli si sarebbero fatti chiamare maestro, padre e guida, e non voleva, ma non è stato ascoltato.
È vero che per trasmettere le conoscenze qualcuno deve insegnare e qualcun altro imparare, è bene che chi è giovane si avvalga dell’esperienza di chi ha qualche anno in più, è necessario che in ogni gruppo, soprattutto se grande, ci sia qualcuno che alla fine prenda le decisioni, ma questo non significa che ci siano persone superiori alle altre o più importanti.
«Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente»: vestiti speciali, posti speciali, titoli speciali per sentirsi più importanti degli altri. Chiedono allo sguardo degli altri di compensare il senso di vuoto che hanno dentro: se gli altri li ammirano e si sottomettono a loro, allora hanno la sensazione di valere qualcosa, ma in realtà nessuno può aggiungere dall’esterno quel che manca all’interno. Per questo il potere, il successo e l’ammirazione degli altri non basta mai: ne occorre sempre di più.
Il 16 novembre 1965, poco prima della fine del Concilio, 40 vescovi provenienti da diversi continenti si incontrarono nelle catacombe di Domitilla, a 40 km da Roma per celebrare insieme l’eucaristia e sottoscrivere un voto che fu chiamato “il patto delle catacombe”. Nonostante il suo carattere profetico, oggi resta poco conosciuto, sebbene rappresenti una delle più impressionanti testimonianze dei padri conciliari. Con questo voto, che venne consegnato al papa dal card.
Lercaro e successivamente firmato da altri 500 vescovi, i firmatari si impegnavano a mettere i poveri al centro del loro operato pastorale ed episcopale e a condurre essi stessi una vita nella maggiore povertà possibile.
Credo sia giusto riconoscere che rispetto al 1965 molta strada è stata fatta dai nostri leader ecclesiali, a cominciare dall’esempio di Papa Francesco, ma che ne resta ancora molta da fare non solo per i vescovi, ma per tutti coloro che sono costituiti in qualche autorità. E anzi, ogni persona che esercita l’autorità dovrà sempre ricominciare da capo il lavoro di respingere da sé gli orpelli e i privilegi del potere.

Meditazione Tutti i Santi 01/11/2023

All’inizio della Messa, nella preghiera “colletta” ci siamo rivolti a Dio che oggi dona alla sua Chiesa «la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi». Tutti i Santi, anche quelli che non sono stati canonizzati ufficialmente, quelli che soltanto Dio e pochi altri hanno conosciuto e apprezzato.
Perché celebriamo «i meriti e la gloria di tutti i Santi», anche se in senso stretto nessuno può vantare dei meriti davanti a Dio, dato che è lui a darci il desiderio e la forza di compiere il bene?
Lo facciamo perché è giusto farlo.
Il mondo tributa onori solenni e celebra funerali di stato a coloro che sono stati potenti… perché sono stati potenti, anche se alcuni di loro hanno scatenato guerre, hanno nascosto la verità o magari hanno abusato del loro potere personale per il loro esclusivo tornaconto. Il mondo si inchina davanti al potere e lo adora, tributando grandi onori a chi lo possiede.
La Chiesa invece onora il bene, la misericordia, il servizio, l’umiltà e il nascondimento. Adora Dio, da cui provengono tutti questi valori, e onora (venera, non adora) tutti coloro che li hanno vissuti.
Le persone che hanno vissuto con fede e pazienza per lungo tempo, o addirittura per tutta la vita, l’infermità e la malattia; quelli che hanno perdonato e amato chi li ha fatti soffrire; quelli che hanno scelto di spendersi nel servizio senza ricevere nulla in cambio, a volte nemmeno un grazie; quelli che hanno compiuto il proprio dovere pagando di persona; tutti quelli che hanno messo da parte se stessi per far posto agli altri e alla volontà di Dio… noi oggi li onoriamo: ci inchiniamo davanti a queste nostre sorelle e a questi fratelli perché riconosciamo che la vera grandezza di un essere umano è quella che loro hanno vissuto, non il potere e la ricchezza.
Già nel XII secolo S. Bernardo di Chiaravalle si chiedeva il perché di questa festa: perché onorare i santi qui in terra se in cielo Dio stesso li onora? «I santi non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Quando ne veneriamo la memoria facciamo i nostri interessi, non i loro». Ovviamente aveva già pronta la risposta: la festa dei santi suscita in noi buoni desideri.
Prima di tutto il desiderio di essere con loro per sempre. Quando ripenso a certe persone che ho conosciuto nella mia vita, santi forse minimi, ma veri, vorrei tanto godere della loro compagnia per tutta l’eternità, poter stare vicino a loro, ritrovare il loro sguardo e il loro sorriso, scaldarmi il cuore con la loro bontà.
Poi S. Bernardo nominava un secondo desiderio, che forse è il primo: «quello che Cristo, nostra vita, si mostri anche a noi come a loro». Poter sentire rivolta anche a noi quella frase: «Servo buono e fedele… sei stato fedele nel poco… prendi parte alla gioia del tuo padrone» (cf. Mt 25,21.23). Onorando la vita buona dei santi noi chiediamo a Dio di darci il desiderio efficace di vivere la loro stessa obbedienza allo Spirito Santo e di condurci a essere per sempre con il Signore Gesù, come loro, accolti dall’abbraccio del Padre.
All’interno di questi due desideri, allora, ce n’è sottinteso un altro: imitare la loro vita. Il mondo cerca di stimolare attraverso i nostri sensi il desiderio del potere, della ricchezza, del piacere e dell’apparire; la vita dei santi ci tocca più in profondità e ci fa desiderare cose completamente diverse. Perciò siamo pieni di gratitudine nei confronti di queste nostre sorelle e di questi fratelli perché hanno mostrato e mostrano ai nostri occhi il bene come desiderabile e possibile, non lontano da noi e fonte della vera gioia.

Meditazione 30^ domenica del tempo ordinario 29/10/2023

Il brano del Vangelo di questa domenica ci presenta Gesù che risponde a una domanda che riguarda la Legge di Mosè: tra i suoi 365 divieti e i 248 precetti positivi, qual è “il grande comandamento”, cioè il più importante di tutti? È quello che si trova nel libro del Deuteronomio: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5) (gli evangelisti aggiungono «con tutta la tua mente»).
È questo il cuore, il centro non solo dell’ebraismo, ma anche del cristianesimo. Senza questo amore totale per Dio che si traduce nell’amore per il prossimo, resta solo l’involucro esterno della religione: riti, norme di condotta, strategie politiche, attività varie…
Io credo che in questi ultimissimi anni stiamo assistendo non al tramonto del cristianesimo, ma alla graduale scomparsa di una religione esteriore di maggioranza, compresa e vissuta da tanti come convenzione sociale. Chi non ama Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” cerca un po’ alla volta di ridurre i “costi” della sua appartenenza religiosa dedicando ad essa il minimo indispensabile delle proprie risorse di tempo, di energie, di sostanze… Credo che sia perfettamente comprensibile: solo una grande passione, un grande amore può giustificare un coinvolgimento totale della propria vita, ma una grande passione e un grande amore possono rivolgersi giustamente solo a una persona, in questo caso a Dio, non a un rivestimento esterno ormai vuoto. Oggi sceglie di essere cristiano chi ha la grazia di amare Dio e Gesù Cristo: gli altri un po’ alla volta si stanno allontanando, magari senza dichiararlo neppure a se stessi, ma realizzando nei fatti il proprio progressivo estraniamento.
Con questo non voglio assolutamente dire che rimarranno i “pochi ma buoni”, perché saremo sempre peccatori, ma rimarranno quelli che avendo capito di essere amati da Dio desiderano amare a loro volta e si mettono alla sequela di Gesù proprio per essere liberati dal peccato, che è l’egoismo, l’incapacità di amare. Perché innamorarsi può essere facile, ma amare veramente, fare posto a qualcun altro nella propria vita richiede un lungo apprendistato e l’aiuto di Dio.
Il “grande comandamento” chiede di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”, cioè con un amore totale. Attenzione però: “totale” non significa “esclusivo”. Perché ‘esclusivo’ vuol dire “che esclude”, ma l’amore di Dio non esclude proprio nessuno, anzi: chiede di includere il prossimo, come Gesù stesso afferma e come dice San Giovanni nella sua prima lettera: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1 Gv 4,20-21). A dirla tutta, l’amore di Dio è così inclusivo che ci chiede di includere perfino il nemico (cf. Mt 5,44-48)…
Ma si può amare un Dio invisibile? Le persone che amiamo hanno un viso, una voce, fanno qualcosa di buono o di bello o di buffo che ci commuove e ce le fa amare sempre di più. Ma Dio?
Dio per noi ha il volto di Gesù che ha dato la sua vita sulla croce, che non ha mai risparmiato se stesso, che ci parla attraverso le sue parole accolte nella preghiera e ci guida a una vita più piena e più bella. E proprio perché l’amore di Dio non esclude ma comprende l’amore del prossimo, cercando di amare le persone che ci sono vicine cresce anche la nostra capacità di amare Dio.
Se c’è qualcosa che l’amore di Dio esclude, non sono le persone, ma gli idoli: Dio non sopporta – diciamo così – che noi consacriamo la nostra vita, le nostre energie e i nostri pensieri a ciò che non ha valore vero, a ciò che è “vano”, come dice la Bibbia, cioè vuoto, privo di vera sostanza. E ciascuno di noi può rendersi conto di ciò che nella propria vita ha valore o non ne ha.

Meditazione 29^ domenica del tempo ordinario 22/10/2023

Nel brano del Vangelo di questa domenica, farisei ed erodiani complottano insieme per far cadere in trappola Gesù e poterlo poi denunciare ai Romani e farlo uccidere da loro, come effettivamente faranno in seguito. Gli pongono una domanda apparentemente semplice: è lecito pagare le tasse all’imperatore di Roma che ha invaso militarmente il loro paese? Se risponde di sì, non si dimostra un buon patriota e perderà la stima di cui gode presso la gente; se risponde di no, potrà essere denunciato come sovversivo.
Gesù, che davvero non ha paura di nessuno, risponde che è lecito pagare il tributo a Cesare perché i doveri verso Dio si collocano su un altro piano, non sono in conflitto con quelli civili.
Le persone molto religiose credono che bisognerebbe donare a Dio tutta la propria vita, e questo è vero, è l’ideale della vita cristiana, ma non siamo puri spiriti e quindi abbiamo diversi “debiti” da pagare anche verso le realtà terrene: questo non sempre contrasta con ciò che è dovuto a Dio.
Nei confronti di Cesare, cioè della comunità civile, abbiamo l’obbligo non solo di pagare le tasse, ma anche di dare il nostro contributo al bene comune, principalmente attraverso il lavoro e, per chi può, il volontariato. Lo Stato e la società in cui viviamo ci danno la possibilità di vivere bene, perciò anche noi dobbiamo contribuire e ciò è gradito a Dio.
Possiamo però avere anche altri tipi di “debiti”, più profondi, e magari ben nascosti.
Molte persone si portano dentro delle ferite psicologiche e affettive che condizionano anche i loro rapporti con Dio e col prossimo. In questi casi Cesare, l’imperatore, non è un potere esterno ma una forza tirannica interna che può esigere tributi molto costosi, sottraendo risorse ed energie alla vita buona e bella che vorremmo vivere. Invece di assistere rabbiosi e impotenti al furto delle nostre “ricchezze”, può essere necessario accettare di pagare una “tassa” a questo potere, dedicando tempo, energie e risorse alla cura di noi stessi, alla guarigione di ferite vecchie e nuove che non si risanano da sole.
Per qualcun altro queste ferite, questo Cesare che esige tributi può essere una colpa grave, un peccato che magari è stato anche perdonato in confessione, ma che ancora schiaccia la coscienza di chi lo ha commesso. La fede cristiana ci chiederebbe di avere più fiducia in Dio e nel suo perdono, ma farse alcune persone hanno bisogno, per arrivare ad affidarsi unicamente alla misericordia del Padre, di passare prima per una strada di espiazione, per poter dire a se stessi che sono veramente pentiti, che non credono al perdono di Dio “perché è comodo”. Dio vorrebbe esentarli dal pagamento di questo tributo, ma alcuni ci devono arrivare per gradi successivi.
Altri ancora possono essere limitati nell’offerta della loro vita a Dio da legami e doveri in certo qual modo “ingombranti”, come ad esempio una famiglia esigente, impegni presi in precedenza, necessità pratiche che coinvolgono anche altre persone e che non possono delegare… Certi leader religiosi sarebbero pronti a ricorrere a frasi evangeliche come «Se la tua mano destra ti è di scandalo, tagliala», oppure «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti…». Per molti, in effetti, scegliere di servire Dio ha significato la liberazione da “poteri” terreni dispotici che rubavano la vita, anziché promuoverla. Ma anche qui a volte è necessario arrivarci per gradi, pagando a Cesare il tributo che gli è dovuto per tutto quel che ha fatto per noi o per quel che gli abbiamo promesso.
Ci possono essere anche tanti altri casi, immagino, ma questi ci fanno capire che, se è vero che Cristo dev’essere l’unico Signore della nostra vita, è vero anche che ha pazienza con noi e non entra in competizione con i vari poteri che governano la nostra esistenza, anche quando assumono un ruolo idolatrico. La liberazione della “terra santa” che è la nostra vita molto di rado avviene attraverso strappi violenti: più spesso avviene attraverso una crescita progressiva che a un certo punto ci libera dall’oppressione degli idoli e dei poteri che esigono pesanti tributi.
La parola del Signore: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» ci rasserena e ci incoraggia a camminare quando scopriamo di non essere ancora pienamente liberi e dediti al servizio di Dio.

Meditazione 28^ domenica del temp ordinario 15/10/2023

La parabola di questa domenica in realtà è composta da due diverse parabole.
La prima rientra nei discorsi polemici che Gesù tiene a Gerusalemme alla fine della sua vita: rimprovera i capi del popolo di non averlo accolto, come non avevano accolto gli altri profeti prima di lui. Perciò, al posto degli invitati alle nozze scortesi e perfino assassini, il re inviterà alla festa altri commensali, “buoni e cattivi”, cioè senza nessun loro merito precedente, senza che si siano guadagnati questo invito.
Quest’ultima annotazione può essere fraintesa nel senso che questi ultimi commensali possano anche permettersi di essere cattivi, come i primi inviati. Ecco allora la seconda parabola, quella dell’invitato senza l’abito nuziale: l’invito fu gratuito, non fu in alcun modo meritato in precedenza, ma questo non significa che i commensali possano permettersi di mancare di rispetto a colui che li ha invitati. Come sono stati puniti i primi, possono essere puniti anche i secondi.
Di recente ho letto un articolo del sociologo Franco Garelli pubblicato l’8 agosto scorso sulla rivista online Settimananews. Riportava alcuni dati di un’indagine condotta nel 2022 dall’ISTAT, secondo la quale negli ultimi 20 anni (dal 2001 al 2022) il numero dei praticanti regolari si è quasi dimezzato (passando dal 36% al 19%) mentre i mai praticanti sono raddoppiati (dal 16% al 31%).
In questo arco di tempo la tendenza al ribasso è stata progressiva di anno in anno, a eccezione di un picco all’ingiù registrato nell’ultimo periodo, coinciso con l’esplosione del Covid. La riduzione della pratica religiosa ha coinvolto tutte le età, ma si è manifestata soprattutto tra i giovani dai 18 ai 24 anni e tra gli adolescenti (14-17 anni). I bambini dopo il lockdown sono tornati in gran parte nelle parrocchie per la catechesi e i momenti di socializzazione, ma non ai riti comunitari. Una volta avrei attribuito questa scelta ai loro genitori, ma ora non ne sono più tanto sicuro: sempre più spesso mi accorgo che ci sono genitori che lasciano scegliere ai loro figli.
Questa drastica diminuzione della partecipazione alla Messa non è una sorpresa: dal mio limitato punto di vista me ne ero già accorto e anche i sacerdoti di altre parrocchie me lo avevano confermato, ma leggere queste cifre mi fa nascere tante domande.
Sono consapevole che la parabola di Gesù non parla della frequenza alla Messa festiva però è vero che la Messa vuol essere segno e anticipazione del banchetto celeste, infatti prima della comunione il sacerdote mostra ai fedeli l’Ostia consacrata e dice: «Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». Perché tanti invitati oggi rifiutano l’invito? Alcuni lettori dell’articolo hanno preso posizione: ovviamente ognuno ha il suo punto di vista e spesso punta il dito per individuare responsabilità, dato che è difficile indicare soluzioni.
Qui non voglio aggiungere la mia analisi o le mie proposte, anche se questa situazione mi tocca da vicino e mi fa male perché mi sento corresponsabile. Qui voglio solo ricordare a me e a chi ascolta queste letture partecipando alla Cena dell’Agnello che attraverso i gesti e le parole del rito noi siamo invitati a una più stretta intimità con Gesù. Ci sono sicuramente cose più divertenti o più riposanti da fare alla domenica, ma chi accoglie l’invito del Signore entra misteriosamente con lui nel cenacolo, può sentirsi perdonato e accolto da lui, può ascoltare la sua voce, può mettere come Giovanni la propria testa sul petto di Gesù e sentire i battiti del suo cuore, nutrire la propria vita col sacrificio di Cristo e ricevere la responsabilità di una missione nel mondo.
La fede ci permette di andare oltre le apparenze, oltre al fatto che la chiesa (come edificio) sia bella o brutta, che i canti siano stonati o emozionanti, che l’omelia sia ispirata o no: oltre i segni sensibili ci è data la possibilità di entrare in comunione sempre più profonda col Signore Gesù che dona se stesso, corpo e sangue, sulla croce, per amore.
Buoni e cattivi come siamo (ognuno di noi è un po’ buono e un po’ cattivo) il Signore ci ha invitati a partecipare, a condividere i suoi sentimenti, i suoi desideri, le sue scelte e la sua gioia.
L’abito nuziale, il vestito bello che dobbiamo indossare per partecipare a questa festa non è questione di apparenza, non è un rivestimento esteriore: è la veste candida del nostro battesimo, è la nostra identità di figli di Dio. Nel libro dell’Apocalisse sta scritto che la sposa dell’Agnello, la Chiesa, è rivestita di una veste di lino puro splendente, e la veste di lino sono le opere giuste dei santi (Ap 19,8).

Meditazione 27^ domenica del tempo ordinario 08/10/2023

In questa domenica la prima lettura e il Vangelo parlano di una vigna e del suo padrone che si aspetta di raccogliere buoni frutti. Nella prima lettura è proprio la vigna che si rifiuta di produrre frutti buoni: «Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Is 5,7). Nel Vangelo invece sono i vignaioli che hanno fatto un buon raccolto ma si rifiutano di consegnare al padrone quanto gli è dovuto, per questo Gesù dice ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «A voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». Quali sono questi frutti? San Paolo nella Lettera ai Galati dice: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).
Abbiamo quindi due modi diversi di descrivere il frutto che Dio si attende: per il profeta Isaia è la giustizia sociale, una società e un mondo senza ingiustizie né sopraffazioni; per San Paolo si tratta piuttosto di nove atteggiamenti interiori.
Credo che non si debbano contrapporre queste due visioni, ma si debbano tenere insieme: gli atteggiamenti interiori non devono rimanere chiusi nella sfera del privato ma devono tradursi in qualcosa di visibile, concreto e collettivo, non individualista. D’altra parte ormai dovremmo sapere che anche i migliori programmi di riforma sociale sono destinati a naufragare se non sono animati dalla carità e temperati dalla misericordia: in nome della giustizia e dei grandi ideali nella storia si è sparso tanto sangue…
Il frutto che Dio si attende è quindi contemporaneamente visibile e invisibile: matura nel segreto della coscienza ma si manifesta all’esterno, nelle relazioni tra le persone; produce risultati concreti ma è animato da una forza interiore.
Purtroppo oggi abbiamo ancora gli stessi problemi denunciati da Isaia: gli spargimenti di sangue e le grida degli oppressi non sono un brutto ricordo, ma cronaca quotidiana. I problemi e i bisogni nel mondo sono tantissimi e non è detto che ci possa essere un solo modo per affrontarli: sicuramente voltarsi dall’altra parte è un modo per non portare frutto, ma ci possono essere approcci diversi nel tentare di risolvere situazioni complesse e problematiche. Edificare una società più giusta e inclusiva è il grande problema di oggi e nessuno ha la ricetta in tasca: molto spesso volano le accuse e anche gli insulti e le calunnie tra coloro che hanno differenti visioni dei problemi e delle possibili soluzioni, mentre invece abbiamo bisogno di dialogo e di ascolto per capire come venirne a capo.
I frutti che Dio si aspetta nascono da un’interiorità riconciliata, non dalla polemica.
Anche nella Chiesa mi sembra che si stia facendo strada lo spirito di contesa, di giudizio, di accuse pesanti in nome di valori che si ritengono irrinunciabili, ma se viene meno la carità, non possono essere questi i frutti che Dio ci chiede.
Nel Libro dell’Apocalisse il Signore dice: «Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza […] Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima» (Ap 2,2-5). Da questo comprendiamo che i criteri in base ai quali Dio approva e fa sue le nostre opere hanno a che fare soprattutto con la carità. Le nostre azioni spesso vanno avanti – con costanza, dice San Giovanni – per abitudine o per motivi magari rispettabili, ma che non sempre derivano dalla carità, e il raffreddarsi dell’amore può portare un po’ alla volta a un fare nel quale Dio non si riconosce, anche nella Chiesa. È importante capire non solo cosa dobbiamo fare, e non è facile, ma anche come dobbiamo fare e come dobbiamo essere per produrre frutti graditi a Dio.

Meditazione 26^ domenica del tempo ordinario 01/10/2023

Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Pur nella mia ignoranza sono un estimatore dell’ebraismo e leggo con interesse testi antichi e recenti di pensatori ebrei. Recentemente ho letto un libro dello scrittore Eli Wiesel, premio Nobel per la pace, nel quale sono raccolte sei lezioni tenute all’università di Bologna (Sei lezioni sul Talmud). Nella terza si legge: «Se un profeta e un saggio sono in conflitto per una questione legale di pertinenza talmudica, non è la voce del profeta che prevale, bensì quella del saggio».
Per comprendere questa affermazione ricorro alla citazione di un sito di cultura ebraica (http://www.e-brei.net/articoli/talmud/talmudi.htm) che spiega il passo di Dt 30,12 «la Torah non è in cielo». «Essa è stata consegnata all’uomo perché la interpreti e prenda le sue decisioni seguendo la maggioranza, di fronte a cui nulla valgono le voci celesti, le pretese illuminazioni sovrannaturali o le nuove rivelazioni. Sentiamo un altro Midrash che conferma queste parole: questa legge non è in cielo: disse Mosè a Israele: non dite verrà un altro Mosè e ci porterà un’altra Torah dal cielo. Vi avverto: non è in cielo, cioè su in cielo non ne è rimasta nulla, non ne è rimasta neppure una lettera […]. Qualsiasi uomo, ebreo o non-ebreo, anche capace di compiere prodigi e miracoli, che dovesse venire ad aggiungere o togliere una parte della Torah o uno dei suoi precetti non potrebbe godere di alcun credito. Tutto è già stato scritto nella Torah e sta all’uomo compiere lo sforzo per dedurlo dal testo».
È un modo di pensare affascinante, soprattutto per la nostra mentalità contemporanea: non c’è un’autorità che possa imporre una decisione, ma tutto è affidato (direi “democraticamente”) al continuo lavorio dell’interpretazione e al parere della maggioranza. Tra l’altro, questa impostazione che si affida alla saggezza condivisa mette al riparo dal seguire falsi profeti, santoni e sedicenti veggenti che tanto male hanno procurato e procurano.
Contemporaneamente, però, è di ostacolo anche nel seguire la voce dei veri profeti che infatti – non solo in Israele – vengono sempre perseguitati perché portatori di una parola diversa da quella che la maggioranza – anche la maggioranza dei saggi – si aspetta di sentire.
Gesù, come e più di Giovanni e degli altri profeti che lo avevano preceduto, non poteva essere accolto dalla maggior parte dei maestri della Legge perché aveva la pretesa di parlare con autorità divina, grazie alla quale intendeva perfezionare, “portare a compimento” la Legge. È questa, se capisco bene, anche la tesi del rabbino Jacob Neusner nel suo libro (raccomandato da Papa Benedetto XVI): Un rabbino parla con Gesù (ediz. San Paolo 2013).
È vero che – sempre nel libro del Deuteronomio – Mosè dice anche: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. […] io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Dt 18,15.18). Per questo ai tempi di Gesù molti aspettavano la venuta del Profeta, cioè quel profeta pari a Mosé che era stato promesso (cf. Gv 1,21). Ma quando hanno dovuto scegliere tra il Profeta e la Legge, i maestri, i saggi hanno scelto la Legge, mentre i peccatori, i pubblicani e le prostitute, sono stati ben contenti di accogliere il profeta Gesù che si mostrava misericordioso e accogliente nei loro confronti, incarnando il perdono di Dio.
Cosa mi dice tutto questo?
Mi sembrano tante le persone che oggi corrono qua e là alla ricerca di pretese visioni e irruzioni del sacro nel mondo, e forse questo accade anche perché in alcuni casi la Chiesa gerarchica si è mostrata poco misericordiosa, troppo attaccata alla legge (non a quella di Mosè, ma al diritto canonico, magari interpretato in senso restrittivo). Ma Gesù è venuto per gli ammalati, non per i sani, per i peccatori, non per i giusti, perciò la Chiesa deve proseguire la sua missione con il suo stesso Spirito, spirito di accoglienza e di misericordia. Quando Papa Francesco dice queste cose, viene molto criticato da certi “saggi”, autoproclamati custodi dei valori.
Inoltre deve (dobbiamo) cercare di ascoltare i profeti – anche minimi, ma sempre scomodi – perché se è vero che il Padre ci ha già detto e ci ha già dato tutto in Gesù Cristo, può ancora intervenire, può ancora dire una parola per farci entrare in testa e nel cuore quel che noi non abbiamo ancora capito e accolto.

Meditazione 25^ domenica del tempo ordinario 24/09/2023

Nel rileggere ancora una volta la parabola di questa domenica mi è tornato in mente il finale di un romanzo di Bruce Marshall pubblicato nel 1949, intitolato appunto “A ciascun uomo un soldo”. È la storia di un prete francese, Gaston, tra le due guerre mondiali, un prete umilissimo e povero che osserva le incomprensibili vicende del mondo (e della Chiesa) con una fede che confina col fatalismo. Alla fine, mentre vecchio, zoppo e quasi cieco va in treno a raggiungere la sua nuova destinazione, alla quale i superiori lo hanno assegnato senza alcuna considerazione per la sua condizione, viene colpito da un pensiero:
«Il treno proseguiva la sua corsa rumorosa lungo la galleria, ma Gaston non si accorgeva delle stazioni, perché stava pensando ai misteri del Signore e riflettendo che lui li capiva in modo molto imperfetto. Uno, però, gli pareva di cominciare a capirlo, e cioè perché tutti gli operai della vigna ricevevano un denaro, sia che avessero portato il peso della giornata e del caldo oppure no.
Pensava che la ragione era questa: che tanta parte del lavoro era ricompensa a se stessa, come tanta parte del mondo era castigo a se stessa».
È proprio così: se parliamo del lavoro agricolo stagionale, non troveremo nessuno che paghi un’ora come se fosse una giornata. Avrebbe tutto il diritto di farlo, se volesse, ma chi butta via così i propri soldi?
Se invece parliamo della vigna del Signore, che nel Primo Testamento è il popolo di Israele e nel Nuovo è la Chiesa, allora la logica del premio e del merito non basta. È vero che ciascuno di noi sarà giudicato secondo le sue opere, ma è anche vero che poter seguire e servire il Signore è una grande fortuna o, più precisamente, una grazia, la grazia. Certo, alla fine ci dev’essere anche un sollievo al “peso della giornata” che per qualcuno è pesantissimo: quelli che piangono dovranno pur essere consolati, e gli affamati di giustizia dovranno essere saziati! Ma quelli che sono rimasti oziosi fino alle cinque del pomeriggio perché nessuno li ha voluti, quelli che non hanno potuto o saputo impiegare le loro forze per qualcosa di buono, forse saranno andati in giro a divertirsi, o avranno bevuto all’osteria, ma alla fine della giornata hanno dovuto constatare la propria inutilità… non sono più fortunati degli altri, di quelli che hanno lavorato duramente, perché il tempo passa per gli uni e per gli altri, ma rimane solo ciò che si è donato.
A questo punto vorrei staccarmi un po’ dal significato della parabola per esporre un mio pensiero sulle “tentazioni degli operai della vigna del Signore” che sono tutte tentazioni di non lavorare, ma per motivi diversi.
All’inizio le tentazioni più comuni sono quelle della pigrizia e del timore. I giovani che potrebbero lavorare nella vigna possono pensare che non vale la pena di impegnarsi subito perché c’è ancora molto tempo davanti e magari si potrebbe presentare un’occasione migliore. La giovinezza è diventata un’età lunghissima e può trasformarsi in un grande parcheggio, in attesa dell’occasione “giusta” che però rischia di non arrivare mai. Il Signore chiama a tutte le ore, è vero, ma la sua pazienza e disponibilità non deve diventare un alibi per la nostra ignavia.
Intorno a mezzogiorno, col caldo e la fatica, si fa vivo quello che gli antichi monaci chiamavano “il demone meridiano” e che i moderni psicologi hanno chiamato “la crisi di mezza età”, verso i 40-50 anni. Il lavoratore si accorge che le cose non sono andate come sperava all’inizio, che forse avrebbe potuto ottenere di più dalle sue fatiche, che nel tempo rimanente non sarà possibile avere tutto… allora è tentato di pensare che in fondo c’è ancora la possibilità di ricominciare da capo, di recuperare il tempo perduto. Forse ce la farà, forse no, ma se abbandona il suo posto di sicuro perde tutto quello che ha fatto fino a quel momento.
Verso sera le forze cominciano a venire meno e la tentazione è quella di mollare, di trovarsi un posticino all’ombra, soprattutto se il carico di lavoro invece di diminuire aumenta. Oppure si può essere tentati di pessimo, di credere che i frutti raccolti non siano in proporzione al sudore che si è sparso. Riguardo alla prima tentazione si deve ricordare che il Signore non è un aguzzino e non pretende che i suoi servi muoiano di fatica, ma non deve comunque venire mai meno lo spirito di servizio e di amore, anche quando si può fare meno di una volta. Riguardo alla seconda, invece, si deve ricordare che la vigna è del Signore ed è lui che pesa i frutti, spesso invisibili ai nostri occhi.
Sì, il lavoro nella vigna del Signore è premio a se stesso e perciò si deve vendemmiare cantando, per alleviare la fatica e soprattutto per dire la nostra gratitudine a colui che ci ha chiamato.

Meditazione 24^ domenica del tempo ordinario 17/09/2023

C’è un proverbio molto diffuso che dice: “La prima volta si perdona, la seconda si bastona”. Ce n’è anche una versione più paziente che dice: “La prima volta si perdona, la seconda si ragiona e la terza si bastona”. Penso che siamo tutti d’accordo con la saggezza popolare e ci sentiamo anche piuttosto generosi quando perdoniamo la prima volta o addirittura la seconda.
Forse Pietro si aspettava un elogio da Gesù per aver proposto di perdonare addirittura sette volte, e invece si è sentito rispondere che bisogna perdonare settanta volte sette. Ovviamente questo comando è sembrato ai discepoli (e sembra anche a noi) impossibile, esagerato. Allora Gesù ha raccontato la parabola dei due servi. Il secondo aveva un debito di 100 denari, equivalenti a quattro mesi di paga di un bracciante: una cifra rispettabile, ma non paragonabile al debito del
primo che ammontava a 10.000 talenti. All’epoca di Gesù un talento ebraico – d’oro o d’argento – corrispondeva a kg 43,6 di metallo pregiato. Perciò, nella più prudente delle ipotesi, il debito di quel servo equivaleva al valore di 436.000 kg d’argento: al prezzo attuale farebbero quasi 250 milioni di euro, ma secondo altri calcoli si potrebbe arrivare anche a cifre venti volte più grandi.
La parabola è molto bella ed efficace, ma fino a un certo punto, perché molti di noi possono pensare di non avere un debito così esagerato con Dio: «In fondo, cosa ho fatto di male?».
Chi è consapevole di avere commesso una colpa grave si rende conto di essere in debito con Dio e di dover essere comprensivo con le colpe del prossimo, ma chi non ha fatto niente di grave magari può non essere così propenso al perdono. Gesù lo sapeva, infatti disse: «Quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47).
Un certo tipo di spiritualità, non ancora scomparso, cercava di instillare nei fedeli dei grandi sensi di colpa per far sì che ciascuno si sentisse debitore a Dio di 10.000 talenti. I sensi di colpa però sono come il dolore fisico: servono ad avvertirci che c’è qualcosa che non va, che bisogna cambiare subito. Se invece si cronicizzano diventano dannosi, schiacciano la vita.
È vero che i santi si sentivano peccatori, ma nel senso che si accorgevano con gratitudine di tutti i grandi doni ricevuti da Dio e dell’impossibilità di ricambiare adeguatamente. Scoprivano di aver ricevuto in dono 10.000 talenti e di non essere in grado di ricambiare che con pochi denari. Siamo tutti debitori a Dio e non solo a lui: chi crede di non dover niente a nessuno è un povero cieco.
Resta il fatto che i torti subiti fanno male e perdonare non è facile. Il perdono comporta di solito un percorso interiore lungo, complesso e tribolato. Oltre alla rinuncia a vendicarsi, comporta il riconoscere che si soffre per la ferita ricevuta e il “dare un nome” a ciò che la ferita ci ha tolto. Poi bisogna trovare un senso al male ricevuto, farne qualcosa, perché non siamo responsabili del male che ci è stato fatto, ma diventiamo responsabili di ciò che facciamo del male che abbiamo subito. Questo percorso può perfino condurci a “comprendere” l’offensore, nel senso di capire che è prigioniero del male che ha commesso e di tutto ciò che lo ha portato ad agire in quel modo. A quel punto potrebbe anche avvenire la riconciliazione, se c’è anche dall’altra parte la disponibilità a riconoscere i propri errori.
Tutto questo non avviene in poco tempo, non succede “sette volte al giorno” come dice il Vangelo di Luca o “settanta volte sette” come dice il Vangelo secondo Matteo: quel che vuol dire Gesù è che non ci devono essere limiti prefissati al perdono. Si deve iniziare da capo il percorso della riconciliazione ogni volta che ce n’è bisogno, ogni volta che “un fratello pecca contro di me”.

Meditazione 23^ domenica del tempo ordinario 10/09/2023

Nel discorso della montagna Gesù dice: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» (Mt 7,3-5). Nel brano del Vangelo di oggi invece invita a correggere il fratello che sbaglia. Allora, bisogna o non bisogna parlare quando qualcuno fa qualcosa di sbagliato?
Di sicuro è più facile girarsi dall’altra parte e lasciare che chi sbaglia si arrangi con Dio e con la sua coscienza, a meno che non abbia fatto un torto proprio a me, nel qual caso esplode tutta l’aggressività di cui sono capace. Ma in effetti il brano di questa domenica comincia proprio così: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…».
Qui non si tratta di erigersi a maestri di vita e di morale per dispensare giudizi e consigli non richiesti, ma del modo in cui si sceglie di rispondere a un torto ricevuto. Gesù sa che anche nella comunità dei suoi discepoli sorgeranno liti e incomprensioni, come in tutti i gruppi umani. Sa anche benissimo che queste liti e incomprensioni possono distruggere la comunità: questioni di soldi, invidie, gelosie, maldicenze, piccole o grandi cattiverie… Prevenire del tutto e impedire queste cose è impossibile: quel che è possibile, anche se molto costoso, è cercare di ricostruire i rapporti. Sarebbe più facile saltare subito alla conclusione e considerare quelli che ci hanno fatto un torto alla stregua dei pagani e dei pubblicani, cioè estranei con cui non si vuole avere niente a che fare, ma ci è richiesto invece di fare tutto il possibile per ricostruire i rapporti.
Il Signore ci invita a non rassegnarci alla divisione e alla disunione, a prendere l’iniziativa della riconciliazione, anche chiedendo aiuto ad altri, se necessario, per poter ricostruire la realtà dei fatti in modo il più possibile vero, oggettivo, non deformato dalla parzialità. È importante poter chiamare i fatti col loro nome, ma anche questo non è un assoluto, perché a volte le persone proprio non riescono a vedere i fatti diversamente dal loro punto di vista, e allora bisogna saper accettare anche la loro cecità parziale e selettiva: anche questa è carità.
Alla fine, nonostante tutto, è ancora possibile che la nostra iniziativa non abbia successo, ma prima bisogna provare e riprovare. Non all’infinito: Gesù sa che esiste l’ostinazione e allora a un certo punto ci invita a lasciar perdere chi non vuole riconoscere i propri torti, ma questo è ben diverso dalla vendetta e dalla maldicenza che oggi si amplificano sui social media.
Essere davvero uniti in Cristo, cioè nel bene, è qualcosa di straordinario, non scontato: richiede di superare molte tentazioni che portano alla divisione e di attuare molti sforzi e attenzioni per costruire l’unità, che pure rimane dono di Dio. Per questo Gesù si lancia alla fine del brano in una promessa che può sembrare esagerata: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà».
Ovviamente Gesù non pensa che questi suoi due discepoli chiederanno di vincere la lotteria, perché hanno sacrificato tanto di se stessi per costruire l’unità e superare tutto ciò che divide. I discepoli veri, cioè quelli che hanno anteposto l’unione con Cristo e tra loro a tutto il resto, capiscono e sanno che cosa è veramente buono, cercano e compiono la volontà del Padre, desiderano e chiedono secondo il cuore di Dio: «Sia fatta la tua volontà». Essi conoscono per affinità interiore, quasi per istinto, ciò che il Padre vuole, lo chiedono e l’ottengono.
Non è Dio che deve fare la nostra santissima volontà, ma siamo noi che dobbiamo cercare di comprendere e attuare la sua, e se impariamo a essere uniti tra noi rigettando l’individualismo e l’egoismo, la nostra ricerca sarà più facile e più sicura.

Meditazione 22^ domenica del tempo ordinario 03/09/2023

Il brano di domenica scorsa segna una svolta nel Vangelo secondo Matteo, come già in quello di Marco: prima della professione di fede di Pietro e degli altri apostoli Gesù si dedica soprattutto alla predicazione alle folle e alla cura dei malati; dopo la professione di fede di Pietro si dedica soprattutto alla formazione dei suoi discepoli che comincia proprio con il brano di questa domenica. Nel Vangelo infatti il testo comincia con le parole: «Da allora», cioè dal momento in cui Pietro disse: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E cosa diceva Gesù da allora in avanti? «Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Il Vangelo annota che a quel punto Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai», ma Gesù rincarò la dose e aggiunse: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Credo che dobbiamo essere grati a Pietro perché la sua obiezione in fondo è anche la nostra, è la reazione umana di tutti i tempi, ma forse soprattutto del nostro tempo: a nessuno piace soffrire, ma in modo particolare negli ultimi decenni siamo riusciti a fare grandi progressi togliendo dalla nostra vita tanti problemi e dolori e godendo tanti tipi di piaceri e di opportunità. Non fa nessuna meraviglia che oggi tantissimi libri di “spiritualità” siano in pratica manuali per vivere in modo più gioioso e piacevole, e di sicuro c’è del buono e del vero in questo, ma allora che senso ha la parola di Gesù sulla croce? Può esserci un qualche legame tra la croce e la gioia?
Poco prima di morire, pienamente consapevole di quel che lo aspettava, Gesù ha detto ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9.11). E subito dopo, pregando il Padre, ha aggiunto: «Ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13).
Gesù sapeva di essere amato dal Padre e con lo stesso amore amava i suoi discepoli e ama anche noi, fino a dare tutto se stesso: in questo sta la pienezza della sua gioia. Vorrebbe anche per noi la gioia piena che proviene da questo amore senza limiti né margini di sicurezza, ricevuto e contraccambiato, ma è una gioia a caro prezzo. Quell’amore che dà gioia dà anche il dolore: a un certo punto la gioia e il dolore non si possono più separare. Perché l’amore può crocifiggere: lo sa chi ha perso una persona cara, lo sanno quelli che assistono un parente ammalato o invalido, lo sa chi è stato abbandonato ma non riesce a smettere di amare, lo sanno tutti quelli che non possono scendere dalla croce perché sono inchiodati dal loro stesso amore.
La croce ci fa paura e credo che nessuno di noi avrebbe il coraggio di sceglierla spontaneamente, nonostante tutti i crocifissi appesi nelle nostre case, nonostante tutte le messe alle quali abbiamo partecipato, nonostante tutte le omelie e le catechesi che abbiamo ascoltato. Credo sia giusto così: non si deve scegliere il dolore, ma la gioia. Solo che la gioia non è la somma di tanti piaceri vissuti egoisticamente, ma il frutto di un amore che si riceve e si dona.
Gesù sulla croce ha sofferto, come tutti i crocifissi della storia, ma è stato lui a scegliere di non fuggire, di non evitare tutto quel male. La sua gioia non è consistita nello schivare il dolore, ma nel trascenderlo: ha accettato il dolore e la morte perché sapessimo che l’ultima parola non appartiene al dolore e alla morte, ma alla vita e alla gioia.
Ha chiesto anche a noi, suoi discepoli, di seguirlo su questa strada: non dedicare la vita al nostro egoistico tornaconto individuale, bensì all’amore e al servizio che possono crocifiggere, ma conducono alla pienezza della vita e della vera gioia.

Meditazione 21^ domenica del tempo ordinario 27/08/2023

Nel brano di questa domenica Pietro professa la sua fede in Gesù e Gesù gli dà autorità sulla sua Chiesa, un’autorità che sarà condivisa anche con gli altri apostoli, come si leggerà in un capitolo successivo (18,18).
Soprattutto in passato l’autorità del successore di Pietro è stata a volte assolutizzata: santa Caterina da Siena vedeva nel Papa addirittura “il dolce Cristo in terra”. Perciò penso che sia bene cercare di capire come san Pietro ha inteso e vissuto la sua autorità. Per fortuna ne abbiamo una testimonianza proprio nella prima Lettera di Pietro, al capitolo 5 dove si legge: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge».
Prima di tutto si rivolge agli anziani, in greco “presbiteri”, cioè ai preti, ai responsabili delle prime comunità, ma non si mette sopra di loro, bensì al loro stesso livello: «Esorto i presbiteri… quale presbitero come loro», partecipe dello stesso servizio. Certo, è consapevole di avere un ruolo speciale: è «testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi», ma si pone allo stesso livello delle persone che esorta. Questo è il suo primo insegnamento sul modo di esercitare l’autorità: va esercitata con umiltà, non con alterigia, mettendosi allo stesso livello degli altri, non dall’alto in basso.
Subito dopo dice quello che i presbiteri devono fare: «pascete», cioè procurate il cibo di cui il gregge ha bisogno. In altre parole: fate in modo che le vostre comunità ricevano l’alimento spirituale di cui hanno bisogno, che comprende certamente la parola di Dio e i sacramenti, ma anche le relazioni ordinate che favoriscono la fraternità.
Poi Pietro dà tre indicazioni sul modo in cui si deve pascere il gregge di Dio.
La prima: «non per forza, ma volentieri». Il servizio di autorità può diventare costoso e oneroso, può incontrare anche molte difficoltà, ma deve essere svolto il più possibile con il volto sereno, positivamente. Probabilmente ogni epoca ha avuto le sue difficoltà, ma in modo speciale oggi i presbiteri sono sottoposti a carichi di lavoro sempre crescenti e a responsabilità sempre più pesanti. È forte la tentazione di “tirare avanti” malvolentieri, lamentandosi e cercando magari di scartare alcuni impegni, ma è appunto una tentazione e come tutte le tentazioni va respinta. Non vale solo per i preti, ma per tutti quelli che esercitano un’autorità: quando si fanno le cose per forza, si fanno male, si può diventare rabbiosi e far del male alle persone che ci sono affidate.
La seconda: «non per vile interesse, ma di buon animo». Fino a qualche decina di anni fa, il sostentamento del clero era garantito dal sistema dei benefici parrocchiali: c’erano parrocchie ricche e parrocchie povere e i preti cercavano di aggiudicarsi per concorso le parrocchie più ricche. Per fortuna ora non è più così. Sono piuttosto altre le posizioni di responsabilità che “nel mondo” (e in Italia) vengono ripagate con ingenti corrispettivi economici, a volte esagerati. Però anche nella Chiesa, e anche per i sacerdoti, i soldi possono essere una terribile tentazione: il servizio, anche quello di autorità, dev’essere invece un dono, perciò libero dalla venalità.
La terza: «non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge». Il potere può diventare una vera e propria perversione: alcuni arrivano addirittura a godere malignamente del loro potere sulle persone, arrivando perfino a distruggerle, ma anche senza arrivare a tanto ci sono capi che non mollano mai e se sono costretti a mollare cadono in depressione perché hanno associato il senso del loro valore personale alla posizione di potere raggiunta. Invece il primo dovere di chi ha autorità è dare l’esempio: solo in questo modo si è autorevoli invece che autoritari. L’autorità di Pietro gli è stata data, non è frutto di ambiziose manovre: è un dono di Gesù, ma è un dono di cui dovrà rendere conto. Il carrierismo nasce dalla convinzione, spesso non consapevole, di non valere niente e di dover raggiungere una posizione “importante” per poter affermare il proprio valore. Ma è un’illusione: non si può aggiungere dall’esterno quel che ci manca dentro.
San Pietro, consapevole dei propri peccati e dei propri limiti, ha esercitato l’autorità con umiltà, sull’esempio di Gesù, suo maestro, a servizio delle persone a lui affidate e ha cercato di insegnare anche agli altri a servire nello stesso modo.

Meditazione 20^ domenica del tempo ordinario 20/08/2023

Nell’antichità la religione era soprattutto un sistema di riti e simboli che esprimevano un’identità sociale. Ad esempio, secondo Cicerone, religio era la “giusta venerazione degli dei giusti” (vale a dire, riconosciuti dallo Stato); il contrario era superstitio: la religione degli altri.
Anche in Israele, nonostante l’originalità della sua fede, la religione aveva una forte connotazione nazionalista: Dio era “il Dio di Israele” e Israele era “il popolo che Dio si è scelto”. I pagani erano, a seconda del momento storico, oggetto di timore o di disprezzo, o di tutti e due.
Nel mondo di oggi, soprattutto dopo l’attentato del 2001 a New York, sta ritornando questa concezione politico-religiosa: Donald Trump negli USA, Putin in Russia, formazioni politiche in Francia e Italia ma anche in Ungheria, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Repubblica Ceca… politici di varie tendenze che magari vivono con poca o nessuna moralità personale si propongono tutti come difensori del cristianesimo, concepito come cultura, tradizione, identità nazionale.
Il brano del Vangelo di questa domenica lascia sconcertati perché, specialmente all’inizio, sembra che Gesù condivida questa concezione di religione. A una povera donna che chiede aiuto per sua figlia e che pure professa la fede in lui (lo chiama “figlio di Davide”, cioè Messia) Gesù oppone un rifiuto durissimo che continua anche quando i discepoli lo implorano, motivato dal fatto che la donna non appartiene al popolo eletto.
Tra l’altro, anche i discepoli non fanno qui una bella figura: supplicano Gesù di esaudire la donna non perché impietositi dalla sua disgrazia, ma per togliersela di torno, dato che li segue gridando.
Alla fine però l’insistenza della donna e il rifiuto di Gesù portano al formidabile dialogo conclusivo in cui Gesù loda la “grande fede” di lei, contrapposta a quella dei discepoli che in molte occasioni si è dimostrata “poca”.
Siccome non credo che l’evangelista volesse far fare brutta figura a Gesù, penso che questo brano cerchi di accompagnare il lettore nella conversione, facendolo uscire dall’idea di religione propria di quel tempo, cioè un sistema di simboli e riti capaci di dare identità e coesione a una nazione, per arrivare a comprendere che per Dio non ci sono stranieri, ma solo figli e figlie, e che il messaggio evangelico ha una destinazione universale ed è chiamato a incarnarsi in tutte le culture assumendole, non azzerandole.
Se il cristianesimo dovesse ritornare a essere un’identità culturale o addirittura nazionalistica, com’è stato in passato, la missione tornerebbe a essere colonialismo, la religione instrumentum regni e il dialogo interreligioso una pace armata, se tutto va bene, o una guerra aperta, se tutto va male.
In questo nostro tempo può essere molto forte la tentazione di ritrovare un’identità e un ruolo contrapponendosi a uno o più avversari e di sostenere alleati politici generosi dispensatori di favori. Ma la religione non è questo, non è uno “scontro di civiltà”, non è una bandiera politica: è questione di fede, cioè di fiducia in Dio, e di attenzione e cura nei confronti del prossimo, anche se è samaritano o cananeo. È guarigione e liberazione dal male, personale e sociale. È un ideale di fraternità universale che forse non sarà mai realizzato del tutto, ma al quale dobbiamo tendere perché abbiamo tutti una sola origine e un unico punto di arrivo: Dio.

Meditazione Assunzione Beate Vergine Maria 15/08/2023

La Chiesa celebra oggi la assunzione al cielo, in corpo e anima, di Maria Santissima. Il prefazio della Messa riassume così il motivo di questa celebrazione: «In lei, primizia e immagine della Chiesa, hai rivelato il compimento del mistero di salvezza e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza. Tu non hai voluto che conoscesse la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita».
Prima di tutto dice: «In lei hai rivelato il compimento del mistero di salvezza».
Il Signore Gesù è venuto a salvarci dal peccato, a liberare la nostra natura dai legami e dalle complicità con il male, con tutto ciò che sfigura la nostra umanità e la rende meschina, brutta, a volte perfino mostruosa. È venuto per renderci simili a sé e farci nuovi, capaci di tenerezza, di comprensione e di coraggio, come lui.
Tutto questo richiede dedizione e tempo: spesso una vita non basta per portare a termine la nostra identificazione con Cristo. Il compimento del mistero di salvezza non appartiene interamente a questa vita, anche perché l’ultima liberazione è la liberazione dalla morte, e questo avviene solo nell’eternità di Dio. Ciò non significa che dobbiamo vivere “col naso per aria”, del tutto indifferenti alle cose di questo mondo: Gesù non ha vissuto così, ma si è interamente votato al bene dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Tuttavia, è giusto ricordare sempre che non tutto finisce qui e che il Regno di Dio non coincide con un progetto di società ideale, nemmeno la più perfetta.
Il mistero della salvezza si compie oltre la nostra vita individuale e oltre la vita delle società e del mondo, l’Assunta ce lo ricorda.
Poi il prefazio aggiunge: «In lei hai fatto risplendere per il tuo popolo un segno di consolazione e di sicura speranza». Mi permetto di ricordare ancora una volta, come ho già fatto in passato, che nella liturgia cristiana la parola ‘speranza’ ha un significato diverso da quello che del linguaggio comune: di solito noi intendiamo la speranza come il desiderio di qualcosa di bello, ma non del tutto sicuro, o addirittura tutt’altro che sicuro. Invece la speranza cristiana è l’attesa del compimento delle promesse di Dio, perciò si parla di “sicura speranza”. Attendiamo per noi quel che Dio ha già fatto per Maria: la risurrezione e la glorificazione dell’intera nostra umanità, quindi anche del nostro corpo.
Ma oltre la speranza c’è anche la consolazione che per San Paolo è la presenza di Dio in mezzo alle prove della vita o addirittura nella persecuzione. Siamo con-solati perché sappiamo di non essere soli e l’assunzione di Maria ce lo ricorda: Dio non ha voluto che si corrompesse nel sepolcro il corpo di Maria e così non abbandonerà nemmeno noi nella morte.
Molte persone nella malattia e vicino alla morte si sentono abbandonate da Dio, ma non è vero: Dio non ci preserva dalla morte, ma ci raggiunge e ci salva nella morte.
Non siamo soli né abbandonati e l’assunzione di Maria ce lo ricorda sempre.

Meditazione 19^ domenica del tempo ordinario 13/08/2023

Gesù cammina sulle acque. In genere i miracoli di Gesù non sono così. Di solito Gesù guarisce i malati, viene incontro alle necessità delle persone, ma non oltrepassa così “sfacciatamente” i limiti della condizione umana che ha assunto. Non si mette a volare, non si mostra invulnerabile… perché questa volta si mette a camminare sulle acque?
In parte la risposta sta nella frase conclusiva del brano: Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!» (v. 33). Subito dopo la moltiplicazione dei pani, l’episodio andrebbe a confermare la divinità di Gesù. Ma d’altra parte tutta la vita di Gesù è stata una rivelazione della sua divinità, divinità che però è tutta contenuta nella nostra umanità: «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9), una divinità che di solito non “invade il campo” dell’umanità. Allora perché ha camminato sulle acque?
Qualche esegeta pensa che l’episodio sia accaduto dopo la risurrezione di Gesù, qualcun altro ritiene che proprio non sia avvenuto: questo per dire che il brano pone effettivamente delle difficoltà. Accogliamo però con obbedienza di fede la testimonianza dell’evangelista Matteo (come pure quella di Marco e Giovanni) e cerchiamo di comprendere.
L’episodio avviene di notte, mentre tutta la comunità di Gesù si trova su una barca che fatica ad avanzare perché il vento è contrario. Gesù la raggiunge camminando sulle acque, ma solo i suoi discepoli lo vedono venire: dunque Gesù non ha mostrato al mondo i suoi “superpoteri”, ma ha cercato di corroborare la fede della sua comunità, di allora e di oggi.
A una comunità che fa fatica ad avanzare e non vede dove sta andando, Gesù viene incontro proprio camminando su quelle stesse acque che rischiano di inghiottirla.
Oggi si fa un gran parlare del “trasformare la crisi in opportunità”, come se fosse facile! Qualcuno ha la genialità per farlo, ma prima di riuscirci di solito bisogna soffrire e trovare il coraggio di abbandonare molte sicurezze del passato per arrischiarsi verso un futuro incerto. Un po’ come Pietro che cerca di camminare anche lui sulle acque, ma poi viene sopraffatto dalla paura.
Il Papa Francesco, come San Giovanni Paolo II prima di lui, ci esorta spesso a non avere paura e cerca di guidare la Chiesa oltre la notte degli scandali, delle chiese semivuote, della riduzione del numero dei preti e del conseguente cambiamento del volto delle parrocchie, della disaffezione di molti giovani (anche se alla GMG erano in tanti)…
Non credo sia la fine del mondo: è forse la fine di un mondo, quello che abbiamo conosciuto e dal quale proveniamo, per approdare a una terra diversa, ma sempre in compagnia del Signore.
Il Signore potrebbe mostrarci la strada servendosi del Sinodo, se i pastori non avranno paura di ascoltare i fedeli, se non si rifiuteranno a priori di prendere in considerazione alcune proposte, se avranno il coraggio di avventurarsi anche fuori dalla barca, per andare incontro al Signore.
Forse la nostalgia ci fa sembrare senza difetti la terra dalla quale proveniamo e ci fa temere oltremisura i pericoli veri o presunti che ci aspettano nel futuro.
Forse allora anche a noi, come già a Pietro, il Signore ripete: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Meditazione Trasfigurazione del Signore 06/08/2023

Credo ci siano soprattutto tre capacità che ci distinguono dal resto del mondo animale, al quale comunque apparteniamo: la capacità di distinguere il vero dal falso e quindi di ricercare la verità; la capacità di distinguere il bene dal male e quindi di realizzare il bene; infine, la capacità di cogliere la bellezza e anche di crearla.
Soprattutto dall’Illuminismo in poi, il cristianesimo ha dovuto dar conto di sé dal punto di vista della verità: ciò che crediamo è vero o falso? È verità o illusione o addirittura inganno deliberato?
Moltissime energie intellettuali si sono spese per rendere conto della fondatezza della fede e rispondere a ogni tipo di obiezione, fin quasi a identificare la fede, a volte, con un sistema di idee.
D’altra parte, sappiamo bene che le idee non bastano: per essere autenticamente religiosi si deve non solo credere nella verità, ma anche agire bene. Quasi tutte le religioni sono molto attente al comportamento morale dei loro fedeli e anche chi non è capace di dare una definizione del bene morale è capace fin da piccolo di distinguere istintivamente il giusto dall’ingiusto, il bene dal male.
Ma oltre la verità e il bene, è importante anche la bellezza.
Nelle religioni c’è molta bellezza e il cattolicesimo italiano in particolare ha prodotto in passato la maggior parte delle opere d’arte religiose del pianeta. I nostri antenati cercavano di veicolare il messaggio cristiano attraverso la bellezza e non avevano paura di investire per questo anche grandi somme di denaro.
Negli ultimi decenni le cose sono cambiate: nel tentativo di liberarsi dal lusso superfluo e dagli orpelli ridicoli di cui si circondava il potere religioso, nella Chiesa si è un po’ persa la via della bellezza. Le nuove chiese sono quasi sempre brutte e l’arte contemporanea non vi è entrata.
Eppure, il mistero della Trasfigurazione del Signore è un mistero di bellezza.
Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte hanno visto risplendere Gesù di una bellezza ultraterrena.
Non sono arrivati a comprendere una nuova idea e non hanno ricevuto precetti da mettere in pratica, a parte quello di mantenere per un po’ il silenzio su quanto avevano visto: hanno “solo” contemplato lo splendore del volto del Signore Gesù.
Confesso che anch’io mi scopro troppo poco attento a questo aspetto della fede, mentre oggi, specialmente oggi, in questa epoca dei mezzi di comunicazione sempre più perfezionati, la maggioranza delle persone cerca bellezza ed emozioni, più che idee interessanti ed esortazioni morali.
Tantissime persone che forse non vanno mai a Messa vengono a visitare la nostra chiesa di Santa Sofia perché è bella nella sua austera semplicità e magari alcuni di loro si fermano anche a dire una preghiera perché questo ambiente suggerisce loro il raccoglimento.
La nostra Messa domenicale delle 19:00 è sempre più frequentata dai parrocchiani – e me ne rallegro – perché è partecipata da molti giovani universitari, alcuni dei quali cantano in coro e così trasmettono un senso di festa e di gioia.
La bellezza non è un “di più”, un lusso superfluo, un’ostentazione o una performance: la bellezza vera, semplice, non artefatta, è lo splendore esterno della verità e della bontà, è la via che attraversa i nostri sensi per arrivare al nostro cuore, più che al nostro cervello o alle nostre mani.
Preghiamo perché il Signore doni anche oggi alla sua Chiesa di riflettere un po’ della sua bellezza per comunicare ai fedeli e a tutte le persone la sua gioia.

Meditazione 17^ domenica del tempo ordinario 30/07/2023

Il brano del Vangelo di questa domenica riporta la conclusione del discorso in parabole di Gesù nel Vangelo secondo Matteo. Due parole hanno attirato la mia attenzione in modo particolare: il tesoro e la gioia. Sono due parole intimamente connesse: quando si trova un tesoro si prova gioia, ovviamente, e quando si prova gioia è perché abbiamo trovato qualcosa di bello e prezioso: un tesoro, appunto, qualcosa che affascina e attrae, che suscita un grande desiderio.
A chi è rivolta questa parabola? Ai discepoli di Gesù, ovviamente, a quelli che in ogni tempo hanno deciso di seguirlo con gioia perché affascinati dalla sua persona e dal suo messaggio, pronti anche a mettere tutto il resto della loro vita in secondo piano o addirittura a lasciare tutto pur di essere con lui.
Ma questa parabola si può leggere anche in un altro modo, se vogliamo. Ogni autore mette un po’ di se stesso nei suoi racconti, e anche Gesù mentre narra le parabole ci rivela qualcosa di sé.
Gesù, nel suo girovagare per la Palestina, era simile a un mercante di perle preziose: che tesori cercava? Di cosa si era innamorato? Della nostra umanità che, per quanto imbruttita dal peccato, ai suoi occhi non aveva perso la sua bellezza. Scavando nel campo della vita di tutti i giorni, così prosaico, spesso banale e non di rado sporco, sotto molti strati scorie accumulate nel tempo, Gesù cercava di ritrovare la nostra bellezza perduta, l’innocenza della nostra infanzia spesso ferita, lo slancio coraggioso verso il bene, la generosità che abbandona i calcoli del dare e avere, la capacità di tenerezza e tutto il bene che Dio ha messo in noi.
Sotto questo aspetto umano di Gesù San Giovanni e San Paolo hanno intuito l’amore di un Dio che ha rinunciato alle proprie prerogative divine, in un certo senso ha venduto tutto quello che aveva e che era, facendosi uomo, per riscattare e riguadagnare la bellezza dell’umanità.
Non so quanti cristiani vivano la propria appartenenza a Dio con gioia, come un tesoro prezioso di cui essere felici: a volte prevale l’abitudine, la noia, il senso del dovere. Se poi guardiamo ai sacerdoti, oggi molti, per tanti motivi, si trovano a vivere il ministero come un peso gravoso da trascinare avanti, non come la scoperta di qualcosa di prezioso: ci sono molti abbandoni, molte richieste di “anni sabbatici”, molti segnali di disagio e di crisi.
Ci possono essere molte cause che appannano o addirittura cancellano la gioia di appartenere al Signore e di servirlo nei fratelli: alcune dipendono da noi, altre, invece, no.
Per quanto riguarda noi, è importante rinnovare frequentemente la consapevolezza che il Signore ci vuole bene e ha fiducia in noi: se non gli fossimo piaciuti non ci avrebbe nemmeno creato e avrebbe messo qualcun altro al posto nostro. Prima di richiamare alla mente tutti i nostri doveri e le cose da fare, è importante ricordare quotidianamente a noi stessi che siamo amati da Dio, che siamo preziosi ai suoi occhi, che gli stiamo a cuore. Questa dovrebbe essere la nostra preghiera: non soltanto una serie di richieste, ma soprattutto un rinnovare la fede nel suo amore. Non c’è un tesoro più prezioso di questo: siamo amati di un amore appassionato ed eterno.
Per quanto riguarda il resto, preghiamo che il sinodo indetto da Papa Francesco possa portare alla Chiesa ciò di cui abbiamo bisogno. Otto secoli fa sono nati gli ordini mendicanti, che prima non c’erano; quattro secoli fa sono nati i seminari, che prima non c’erano; nel secolo scorso sono nati i movimenti ecclesiali… In ogni tempo Dio dona nuove energie e nuovi modi di vivere la fede, la speranza e la carità.
Le strutture possono e a volte devono cambiare: qualche volta è necessario vendere anche i più cari ricordi di famiglia, abbandonare le cose alle quali si era affezionati, per abbracciare l’unico necessario.

Meditazione 16^ domenica del tempo ordinario 23/07/2023

Dato che nel passato anche recente mi sono fatto pubblicità, sapete che ho scritto un libro sulle derive settarie nella Chiesa e uno sull’abuso spirituale. Studiando queste cose sono venuto a conoscenza di fatti molto brutti accaduti nella Chiesa e, come se ciò non bastasse, sono stato in seguito contattato da diverse vittime e sopravvissuti che mi hanno raccontato il resto. Sento di sottoscrivere quel che disse l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card.
Joseph Ratzinger, nella riflessione sulla nona stazione della Via Crucis al Colosseo nel 2005, dedicata alla terza caduta di Gesù: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!».
È ciò che si chiama ‘scandalo’: laddove ci si aspetta di trovare santità o almeno ordine, pulizia, retta intenzione nel servizio del bene, ci si imbatte invece nella falsità, nell’ipocrisia, nei peccati più abietti. Può subentrare allora lo scoraggiamento: «Ma allora non si salva nessuno! Non c’è niente di pulito a questo mondo?».
A loro volta lo scoraggiamento e il pessimismo tolgono energia e volontà nel fare il bene. Capitò lo stesso al profeta Elia che chiese a Dio di morire perché «gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita» (1 Re 19,14). Dio gli rispose: «Io mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l’hanno baciato con la bocca» (v. 18). Settemila persone non sono poche, ma il profeta non le aveva viste perché i suoi occhi erano accecati dalla delusione e dalla tristezza.
La parabola del buon grano e della zizzania parla proprio di questo scandalo: lo cogliamo sulla bocca dei servi che dopo aver lavorato con fatica e competenza vedono un risultato inatteso e potenzialmente disastroso e dicono sconsolati al padrone «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?».
La Chiesa non è forse radunata dalla parola di Dio? Non raccoglie forse persone che sentono il richiamo del bene e vogliono realizzare qualcosa di buono mettendosi a servizio degli altri? Non ha come legge suprema l’amore a Dio e al prossimo? Da dove provengono gli scandali?
Il Signore risponde: «Un nemico ha fatto questo», vale a dire che il male non fa parte del progetto di Dio, ma c’è e bisogna affrontarlo. Come?
I servi vorrebbero intervenire subito e strappare la zizzania, ma il padrone del campo invece chiede loro di aspettare. Intendiamoci bene: quando avvengono degli scandali che coinvolgono persone fragili bisogna intervenire subito e con la massima decisione possibile. Ma non si devono coltivare sogni di purezza assoluta perché uno zelo eccessivo può a sua volta generare altri soprusi e sofferenze.
È sempre possibile disapprovare il male, ma non sempre è possibile fare qualcosa di concreto per opporvisi, o per lo meno non a tutti. Allora è necessario coltivare la virtù della pazienza o della sopportazione, che non è la passività o la pigrizia, tanto meno il menefreghismo, ma la capacità di sub-portare, cioè portare pesi – situazioni – pesanti, raccogliendo i cocci e pagando il prezzo di danni che non abbiamo fatto noi, soccorrendo le vittime, segnalando ciò che non va a chi ha il potere e il dovere di intervenire. Soprattutto non lasciandosi accecare dalla delusione e guardandosi dallo scoraggiamento, ma perseverando nel bene.
È necessario coltivare questa virtù della pazienza anche e soprattutto nei confronti di se stessi, perché molto spesso non abbiamo il potere di cambiare le cose che non ci piacciono di noi stessi e rischiamo di diventare intolleranti: almeno a me succede di trovare insopportabili negli altri quelli che sono i miei difetti. Quando invece riconosco di essere una povera creatura limitata, mi riesce più facile accettare che anche gli altri lo siano e sentirli fratelli e sorelle.

Meditazione 15^ domenica del tempo ordinario 16/07/2023

Il brano di questa domenica è l’inizio del discorso in parabole di Gesù nel Vangelo secondo Matteo. Perdonatemi se ripeto ancora quel che ho già detto tante altre volte: contrariamente a quello che molti pensano, le parabole non sono un modo semplice per esprimere concetti difficili, ma proprio il contrario: nella maggior parte dei casi sono come degli indovinelli, dei brevi racconti che sconcertano, che lasciano spiazzati. Noi le abbiamo ascoltate così tante volte che crediamo di averle capite e non ci meravigliamo più di niente, ma in realtà Gesù voleva proprio stupire, meravigliare, al limite scandalizzare e far arrabbiare i suoi ascoltatori. Come in questa prima parabola in cui un contadino orbo o scemo butta il suo seme sulla strada, sul terreno sassoso e in mezzo ai rovi. Centinaia di commentatori hanno detto e ripetuto che in realtà tutto è spiegabile: ai tempi di Gesù prima si seminava e poi si arava, sicché poteva capitare che il seme cadesse anche fuori del terreno buono… Ma qui non si parla di pochi semi caduti poco oltre il confine del campo: qui c’è uno che butta i semi dappertutto, apparentemente a casaccio. Perché? Che senso ha?
Ecco, Gesù vuole proprio che i suoi ascoltatori si chiedano: perché? Con i suoi discepoli di solito non parla così e infatti loro si accorgono della differenza e gli chiedono: «Perché a loro parli con parabole?». E la risposta di Gesù è ancora più spiazzante: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha [volontà di ascoltare], verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha [volontà di ascoltare], sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono».
Sembra quasi che Gesù non voglia farsi capire da quelli che non sono suoi discepoli, ma in realtà sono loro che diffidano di lui e non vogliono ascoltare, perciò Gesù adotta questa strategia. Ai suoi discepoli, a quelli che umilmente accettavano e accettano di mettersi in ascolto della sua parola, egli parlava e parla apertamente; a quelli invece che la sanno lunga, che preparano obiezioni ancor prima di aver ascoltato, Gesù parla in parabole, per indovinelli, nella speranza che qualcuno prima o poi abbia l’umiltà di dire: «Non capisco, spiegami».
Se da una parte Gesù si accorge della chiusura di molti che non lo vogliono ascoltare, dall’altra non getta la spugna e non si chiude nella ristretta cerchia dei suoi discepoli, ma lancia una sfida a “quelli di fuori” perché abbassino le loro difese e comincino ad ascoltare davvero.
Perciò, la prima parabola è la prima proprio perché parla dell’ascolto. Se il contadino fosse un contadino vero, quel che fa non avrebbe senso, ma in realtà la parabola ci sta raccontando quel che succede da sempre alla parola di Dio: è un seme buono che spesso sembra andare sprecato inutilmente, ma che alla fine invece produce un raccolto esagerato, sovrabbondante.
Credo che questa parabola abbia molto da dire ai nostri tempi nei quali si sono enormemente sviluppati gli strumenti di comunicazione e la pervasività delle immagini. Come comunica Gesù?
Non cerca di colpire un target, cioè un bersaglio passivo, non cerca di far passare a tutti i costi un messaggio già confezionato come fanno gli influencer e i pubblicitari. Cerca invece di suscitare una domanda o almeno una curiosità, di iniziare un dialogo, una relazione.
Proprio perché le parabole non hanno un solo significato prestabilito ma stimolano l’inizio di un pensiero, non sono interpretabili una volta per tutte ma in ogni tempo possono entrare in dialogo con le nostre vite.
Io, per esempio, trovo grande incoraggiamento in questa parabola quando mi sembra che le iniziative pastorali – mie e di altri – siano infruttuose, quando mi sembra di non trovare ascolto né risposta all’annuncio del Vangelo. Quando mi viene voglia di dedicarmi solo a un piccolo orticello seminato di precisione, questa parabola mi invita a non scoraggiarmi e a continuare l’annuncio con larghezza e magnanimità, lasciando che sia il Signore a pesare i frutti. Nello stesso tempo, capisco che devo imparare da Gesù e trovare o almeno cercare il modo di accendere l’interesse dei potenziali interlocutori, non rimanendo passivo a ripetere quel che si è già fatto in passato.

Meditazione 14^ domenica del tempo ordinario 09/07/2023

Il brano di oggi è una specie di “masso erratico” nel Vangelo secondo Matteo: il linguaggio sembra addirittura quello dell’evangelista Giovanni. Questo per dire che il contesto, stavolta, ci aiuta fino a un certo punto a capire il senso del brano. Si parla comunque in tutto il capitolo della accoglienza o non accoglienza di Gesù e questa è la conclusione: non sono stati i sapienti e i dotti in Israele ad accogliere Gesù, ma i “piccoli”.
Di per sé, questo non sembra essere un buon segno e nel Vangelo secondo Giovanni ad un certo punto i farisei lo fanno notare: «Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!» (Gv 7,48-49). Forse per essere credenti bisogna rinunciare a capire? Bisogna rinunciare a usare la propria intelligenza?
No, non è necessario, anzi è pericoloso: la fede senza intelligenza può generare il fanatismo, con tutto quel che ne consegue. Non è l’intelligenza l’ostacolo alla fede, ma la presunzione; per essere credenti non bisogna essere stupidi o ignoranti, ma umili.
La fede non consiste prima di tutto in qualcosa da capire, anche se poi ci sono tantissime cose da scoprire, conoscere, approfondire. Prima di tutto la fede consiste nell’affidarsi a Dio, nel fidarsi di lui, nel mettersi nelle sue mani. La fede in Dio è una relazione nella quale riconosciamo la nostra piccolezza e di conseguenza ci affidiamo a Lui.
Per questo Papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et Exultate ai nn. 36-46 ci ha messo in guardia contro un pericolo che ha chiamato “gnosticismo”: che cos’è? «In definitiva, si tratta di una vanitosa superficialità», «credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II metteva in guardia quanti nella Chiesa hanno la possibilità di una formazione più elevata dalla tentazione di sviluppare un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli.
Quel che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio».
Il brano del Vangelo però non finisce qui, ma termina con le parole di Gesù che invita gli affaticati e gli oppressi a prendere su di sé il suo giogo dolce e leggero.
Si tratta di una metafora riferita al suo insegnamento: nel linguaggio dell’epoca il “giogo” stava a significare l’obbedienza ai comandamenti della Legge di Mosè. Rispetto ad altri maestri duri e inflessibili nell’applicare minuziosamente quei comandamenti alla vita delle persone, col risultato di opprimerle e sfinirle, Gesù si pone come un maestro mite e umile che chiede un’obbedienza più facile: un “giogo”, appunto, dolce e leggero.
Anche su questo punto vorrei ricordare l’insegnamento di Papa Francesco che subito dopo aver parlato dello gnosticismo, ai nn. 47-62 parla anche del pelagianesimo, cioè di coloro che «fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico».
La santità non consiste nel diventare sempre più bravi, in prestazioni sempre più difficili, ma nel corrispondere all’amore di Dio con l’amore al prossimo, con la carità, con la misericordia. Vivere la religione come uno sforzo perfezionistico, come un continuo autocontrollo, come una tensione che non si allenta mai, porta necessariamente a sentirsi “affaticati e oppressi”, o addirittura alla disperazione.
Gesù non chiede questo. Soprattutto non ci chiede di fare affidamento solo sulle nostre povere forze, perché sa che sono limitate. Il “giogo”, il peso che ci chiede di portare è leggero perché lo porta lui insieme a noi: ci chiede di accorgerci di quanto ci ama, in modo che nasca in noi il desiderio di ricambiare questo amore.
In sintesi: i discepoli di Gesù non sono i più intelligenti e non sono nemmeno i “più bravi”, ma sono quelli che hanno creduto, con umiltà e gratitudine, che il Signore li ama. E perciò sono felici, anche nelle prove e nei dolori di questa vita.

Meditazione 13^ domenica del tempo ordinario 02/07/2023

Il brano di questa domenica conclude il discorso missionario di Gesù. È importante tenere presente questo contesto, altrimenti non si capisce il senso delle parole del Signore. Infatti, quando Gesù dice «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me» non sta facendo una classifica dei sentimenti: sta dicendo a quelli che ha incaricato della missione che non possono accampare scuse.
Su questo punto, però, bisogna capirsi bene.
Dopo che ho scritto il libro sull’abuso spirituale hanno cominciato a cercarmi parecchie persone che hanno subito in passato questo tipo di abuso. Tra queste, mi ha telefonato una persona che quando era adolescente faceva parte di una famiglia che ha deciso di andare in missione all’estero. Di famiglie missionarie ne ho conosciute diverse e sono stato edificato dal loro coraggio e dal loro impegno. Per quella persona, però, dover andare all’estero durante l’adolescenza, rompendo tutte le sue amicizie e inserendosi in una scuola di cui non conosceva la lingua, è stato disastroso. I suoi genitori, a quanto mi ha detto, non hanno voluto venire incontro ai suoi bisogni proprio perché ritenevano di dover mettere al primo posto le esigenze della missione: «Chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me».
Era proprio volontà di Dio che questa persona subisse i traumi che ha vissuto? Era proprio volontà di Dio che quei genitori continuassero la loro opera di evangelizzazione senza tener conto della sofferenza vissuta dai loro figli? È questo il senso delle parole di Gesù?
In queste cose occorre discernimento. Il Signore può chiederci di soffrire, di prendere la nostra croce, ma se pensiamo che ci chieda di far soffrire, di crocifiggere qualcun altro, allora dobbiamo essere molto, molto cauti.
Un conto è il dispiacere di un genitore per un figlio che sceglie il sacerdozio o la vita religiosa: anche se il papà o la mamma non sono d’accordo, i figli hanno il diritto di vivere la loro vita, di fare le loro scelte, di realizzare i propri desideri e non quelli dei genitori. La libertà di ogni persona è sacra e inviolabile.
Se invece parliamo di infliggere sofferenze a una persona molto giovane che non ha gli strumenti per elaborare il proprio dolore, o addirittura a un bambino, allora credo sia blasfemo dire che questa è volontà di Dio.
La volontà di Dio dev’essere compiuta senza se e senza ma, come si dice adesso, ma prima bisogna capire bene qual è questa volontà, eventualmente distinguendola dalla volontà di un superiore che crede di essere illuminato solo perché ha un ruolo di autorità.
La vita va spesa donandola, questo è ciò che ci insegna Gesù: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà», ma riconosciamo la qualità evangelica di questo dono dai suoi frutti, frutti di bene e di gioia, non frutti di rabbia e di dolore, come dice la lettera di San Paolo ai Galati: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).
Chi è incaricato di evangelizzare deve portare il Vangelo dentro di sé, deve mostrarne i frutti nella propria vita. Per questo non può rendersi insensibile al dolore, non solo dei propri figli, ma di ogni creatura. Vale anche per la missione ciò che San Francesco di Sales diceva della devozione: «L’ape trae il miele dai fiori senza sciuparli, lasciandoli intatti e freschi come li ha trovati. La vera devozione fa ancora meglio, perché non solo non reca pregiudizio ad alcun tipo di vocazione o di occupazione, ma al contrario vi aggiunge bellezza e prestigio».

Meditazione 12^ domenica del tempo ordinario 25/06/2023

Nel Vangelo di oggi c’è una frase che suona così: «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro». È sicuramente una traduzione possibile, ma è frutto di una interpretazione. Alla lettera il testo dice: «Nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre vostro». Mi chiedo cosa significhi questo «senza il Padre vostro». La nostra traduzione dice: «senza il volere del Padre vostro», e da qui nasce il proverbio: «Non si muove foglia che Dio non voglia». È un modo di pensare a Dio che onora la sua onnipotenza, ma spalanca dubbi ben più gravi su di lui: come può volere o anche solo permettere che accadano le cose orribili che sentiamo tutti i giorni nei notiziari?
Altri traducono così questa frase: «senza che il Padre vostro lo sappia». In altre parole, il Padre conosce tutto ciò che accade e ne tiene conto: il profeta Isaia e il libro dell’Apocalisse ci insegnano a sperare che Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi. Possiamo sperare che un giorno perfino ogni passero caduto sarà rialzato.
A me però piace il testo com’è nell’originale: «Nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre vostro». Vale a dire che nemmeno un uccellino, quando cade, cade da solo, ma il Padre è con lui.
Dio non lo vediamo e non lo sentiamo, ma è sempre con noi, e un giorno questo ci diventerà chiaro, evidente. Per questa presenza che sempre ci accompagna Gesù dice ai dodici apostoli, e anche a tutti noi, di non avere paura. Lo ripete per tre volte ai dodici che stanno per partire in missione e lo ripete a noi tutti i giorni. Qualcuno ha contato nella Bibbia tutte le volte in cui c’è scritto «Non temere», «Non temete» o espressioni equivalenti: sono 365, tante quante i giorni dell’anno. Ogni giorno il Signore ci ripete di non aver paura perché è quasi sempre la paura quella che ci impedisce di “fare la cosa giusta”. Pensiamo alle conseguenze possibili, alle difficoltà che potremmo incontrare, a cosa potrebbe capitare se qualcosa dovesse andare storto… Un gesuita molto anziano e molto saggio mi disse un giorno: «Più vado avanti con l’età e più penso che nella vita la vera battaglia non è tra il bene e il male, ma tra il bene e la paura».
Gesù sa che chi sceglie di fare il bene e di testimoniarlo andrà incontro a opposizioni anche violente, come è stato per lui, e che questo ci fa paura, ma è necessario vincerla, questa paura, se vogliamo fare qualcosa di buono nella vita, qualsiasi cosa.
La paura non ci deve impedire di fare il bene: ci può aiutare a non essere avventati, a non fare stupidaggini. Addirittura può essere un dono dello Spirito Santo chiamato “timor di Dio”. Tante volte ho detto e insegnato ai bambini della cresima che il timor di Dio non è la paura, ma forse mi sono sbagliato. È vero che San Giovanni nella sua prima lettera dice che «Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18), ma specifica che l’amor di Dio consiste nell’osservare i suoi comandamenti. Chi invece non li osserva e commette cose davvero gravi farebbe meglio ad avere paura di Dio. Ai bambini non si deve insegnare ad aver paura di Dio, ma chi compra e vende vite umane, chi vive nell’egoismo e non conosce la pietà, chi pensa solo al proprio tornaconto personale dovrebbe avere paura di Dio che «ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna». La Geenna (gē Hinnōm, cioè valle di Ennom) a sud-ovest di Gerusalemme, maledetta dal re Giosia perché in precedenza vi venivano offerti sacrifici umani, fu destinata a immondezzaio della città, quindi vi ardeva continuamente il fuoco. Non è male avere un po’ di paura che la propria vita finisca nell’inceneritore di un immondezzaio perché in essa non c’è niente di buono da salvare, soprattutto se in questo mondo si è potenti, temuti e rispettati. Forse una volta ce n’era troppa di questa paura; oggi mi sembra che ce ne sia troppo poca.

Meditazione 11^ domenica del tempo ordinario 18/06/2023

Il brano del Vangelo di oggi racconta l’invio in missione dei dodici apostoli, parola che significa, appunto, inviati. Questa missione non nasce da un programma di conquista, di proselitismo, da un desiderio di Gesù di aumentare il numero dei propri seguaci. Nasce dal suo sguardo sulle folle, sulle persone che lo cercano.
In un primo momento li vede come pecore senza pastore: sono stanchi e sfiniti perché hanno fatto tanta strada trasportando i loro malati alla ricerca di un guaritore, con tanta ansia nel cuore e un lumicino di speranza. Per questa povera gente Gesù prova tanta compassione: vorrebbe raggiungerli tutti, ma non può farlo da solo. Per raggiungere questa umanità sofferente che cerca sollievo dai propri dolori e salvezza dai propri mali, Gesù ha bisogno di qualcuno che condivida il suo stesso sguardo, i suoi stessi sentimenti e la sua stessa compassione.
Subito dopo, però, vede quelle stesse persone che lo cercano come un campo di spighe mature, pronte per la mietitura. Non come un campo da seminare né come un edificio ancora da costruire, ma proprio come un campo da mietere con urgenza, prima che il raccolto cada a terra e si rovini irrimediabilmente. In quel momento, in effetti, molti attendevano la venuta del Messia e molti, in questa attesa, erano stati ingannati e avevano seguito falsi profeti. I dodici sono stati mandati a mietere il raccolto, a rispondere alle attese presenti nelle persone di quel tempo.
Mi chiedo come vede oggi Gesù le persone del nostro tempo, quali sono le attese alle quali rispondere e come devono essere quelli che vengono inviati per la missione.
Negli ultimi ottant’anni la propaganda commerciale e politica è diventata sempre più abile nell’individuare i bisogni sui quali fare leva per vendere i propri prodotti o far votare i propri candidati, e se questi bisogni non si trovano, si possono anche creare: si può far credere alle persone di aver bisogno di qualcosa o qualcuno. A volte anche nella Chiesa o nelle parrocchie ci si chiede come fare perché le persone si interessino al Vangelo, come se fosse un prodotto da piazzare sul mercato. Le folle oggi non mi sembrano un campo pronto per la mietitura, ma forse piuttosto un campo già mietuto, dove al massimo si può spigolare qualche spiga caduta a terra.
Le persone malate, stanche e sfinite non mancano, ma ci sono anche tante proposte diverse di cura, di sollievo e, al limite, di andarsene “con dignità”.
Un certo interesse sembra risvegliarsi lì dove si dice che appaia la Madonna o dove si presentano leaders in qualche modo affascinanti che “bucano lo schermo” televisivo o dello smartphone.
La Chiesa ha dunque bisogno di seduttori come nuovi apostoli?
Usare i media vecchi e nuovi per diffondere il Vangelo, e cercare di usarli bene, non è un peccato.
Ma la diffusione del Vangelo non è garantita dalla forza dei mezzi umani: al contrario, si appoggia solo sulla forza di Dio e quindi richiede la povertà e la debolezza degli annunciatori. Infatti il brano del Vangelo di oggi prosegue così nei versetti immediatamente seguenti: «Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone».
Mentre molti si domandano come fare per riempire nuovamente le chiese e per riportare i giovani a messa, Papa Francesco ci invita invece a uscire, ad andare incontro alle persone con lo stesso sguardo compassionevole di Gesù, cioè con la capacità di sentire i loro problemi e dolori come se fossero nostri. Non occorre andare molto lontano: vicino, vicinissimo a ciascuno di noi c’è qualcuno che soffre, che ha un problema, che ha bisogno di trovare un po’ di ascolto. Questo “esercizio di prossimità” riempirà le chiese? Forse no, ma diffonderà il Vangelo, la buona notizia che Dio si è fatto vicino a ciascuno di noi.

Meditazione Corpus Domini 11/06/2023

«Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda». Queste le parole del Vangelo di oggi.
Gli abitanti di Cafarnao le hanno fraintese: ovviamente Gesù non li stava invitando a praticare il cannibalismo. Ma siccome l’episodio è avvenuto ben prima dell’ultima cena, quelle parole non potevano nemmeno riferirsi alla comunione eucaristica. Allora, cosa poteva voler dire per loro in quel momento e anche per noi oggi “mangiare la carne del Figlio dell’uomo e bere il suo sangue”?
Mangiare significa nutrirsi, ovvero assumere con gli alimenti le sostanze necessarie per vivere.
Perciò Gesù in questo discorso detto “del pane di vita” sta indicando ai suoi ascoltatori ciò che può davvero nutrire la loro vita, cioè quel che le può dare energia, forza, benessere profondo.
Nella prima parte del discorso, all’inizio del capitolo sesto del Vangelo secondo Giovanni, è il messaggio di Gesù questo pane che discende dal cielo, questo alimento che viene da Dio. Ma nella seconda parte, quella da cui è tratto il brano di oggi, non sono più solo le parole di Gesù quelle che “nutrono” in suoi discepoli: è la sua carne e il suo sangue.
La nostra vita non ricava nutrimento e forza solo dalle parole di Gesù, ma anche da tutto quello che Gesù ha fatto, ha vissuto, ha sofferto e gioito: i suoi muscoli indolenziti e il suo sudore per i lunghi viaggi a piedi sotto il sole mediorientale; il tocco delicato delle sue mani sui corpi degli ammalati; il ribollire delle sue viscere di fronte all’ingiustizia; il dolore nel corpo e nella testa quando lo hanno respinto a sassate; la fame e la sete; la gola riarsa, la stanchezza e il sonno; la scelta della povertà e le sue conseguenze; e infine la pelle lacerata, le spine nel capo, i buchi dei chiodi, il soffocamento sulla croce. Tutto quello che Gesù ha vissuto con il suo corpo nutre la nostra vita, le dà motivazione ed energia. Come il cibo e le bevande danno forza al nostro corpo, così l’incarnazione del Figlio di Dio, tutto quello che ha sperimentato e agito con il suo corpo ci fa vivere ed essere a sua somiglianza.
Perché mangiare significa anche assimilare, cioè alla lettera: rendere simile. Quando noi mangiamo gli alimenti più vari li trasformiamo in parti del nostro corpo o in energia per la nostra vita. Invece, quando ci nutriamo del corpo e del sangue del Signore, quando contempliamo e imitiamo ciò che egli ha detto e fatto, noi siamo assimilati a lui, siamo resi simili – almeno in parte – alla sua divina Persona.
Quando facciamo la comunione dovremmo cercare di ricordare che questo gesto ci impegna a mangiare e bere la carne e il sangue del Figlio dell’uomo, cioè a ripensare a tutto quello che Gesù ha fatto e ha subito, a lasciare agire in noi le impressioni generate da tutto quello che lui ha vissuto, a riprodurre nella nostra vita quel che lui ha sentito e vissuto.
Più di ogni altra cosa, la carne e il sangue di Gesù hanno sofferto e si sono offerti per amore sulla croce. Perché quella sofferenza non sia solo una violenza senza senso, uno spreco di vita, ci deve essere qualcuno che si nutre di quel sacrificio, che trova in esso ispirazione per andare avanti e dare un indirizzo alla propria esistenza.
«Colui che mangia me vivrà per me», dice il Signore: chi si nutre di tutto ciò che Gesù ha vissuto nel suo corpo e con il suo sangue, non vive più per se stesso ma per colui che ha dato la sua vita per noi, fino a dire con San Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

Meditazione S. Trinità 04/06/2023

Oggi la chiesa celebra la solennità della Trinità santa di Dio. In questo nostro mondo non abbiamo nessuna esperienza di un essere multipersonale: umani e animali sono tutti individui. Invece Dio si è rivelato a noi come unico, ma in tre Persone: non tre dèi, non tre parti, non tre aspetti, ma un solo Dio in tre Persone. Inutile cercare paragoni, che non reggono: è meglio meditare quel che Dio ha detto di sé, come ha voluto farsi conoscere da noi.
Nella seconda lettura San Paolo conclude la seconda lettera ai Corinzi con alcune parole che sono diventate anche un saluto liturgico all’inizio della messa: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». Sono parole che possono aiutarci, se non a comprendere, almeno ad adorare la Trinità santa di Dio, a non sentirla lontana da noi.
Vediamo uno per uno questi tre nomi e cerchiamo di comprenderli.
«La grazia del Signore Gesù Cristo», che cos’è? È la sua benevolenza gratuita che lo ha spinto a dire e a fare tutto ciò che ha detto e ha fatto per il nostro bene, per la nostra salvezza. In italiano noi usiamo la parola latina ‘gratis’, che vuol dire proprio “per grazia”, cioè senza contraccambio, senza nessun merito precedente, per libera iniziativa, gratuita, appunto. Si entra davvero nella fede cristiana quando ci si accorge, si comprende, si crede che siamo amati gratuitamente dal Signore Gesù, che siamo preziosi ai suoi occhi, che il suo amore per noi non è condizionato da quel che facciamo. Non abbiamo meritato la salvezza: è gratis, è grazia, è amore preveniente.
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16).
Questo «amore di Dio», del Padre, si è manifestato infatti donandoci il suo Figlio, come dice il brano del Vangelo di oggi: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Ciascuno di noi è amato da Dio, dal Padre, fin dall’eternità: siamo stati «scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore» (Ef 1,4). Nessuno ha mai visto Dio (cf. Gv 1,18): Gesù, il Figlio di Dio, è lui che ce lo ha raccontato con le sue parole e le sue azioni. Da ciò che Gesù ha detto e fatto possiamo capire e credere che il Padre ci ama, che il suo modo di relazionarsi con
noi è l’amore.
«La comunione dello Spirito Santo»: come dicevo al termine dell’omelia di domenica scorsa, lo Spirito Santo è donato alla comunità, con doni diversi per ciascuno, ma per formare un unico corpo, per creare comunione tra noi. L’amore gratuito di Dio chiede di essere condiviso, chiede di essere ridonato tra noi. È l’unico modo autentico di ricambiare davvero l’amore di Dio: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
Lo stesso Spirito che viene invocato dal sacerdote durante la messa per trasformare il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo offerti per noi, viene invocato anche sull’assemblea «perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito». Questo è il sacrificio gradito a Dio: fare spazio agli altri, farli crescere, cercare di essere uniti gli uni gli altri, servendoci reciprocamente.
La grazia, l’amore e la comunione. Il Figlio, il Padre e lo Spirito: Dio venuto fino a noi, Dio da cui veniamo noi, Dio che abita in noi.
Santa Trinità, unico Dio, fa’ che accogliamo la tua grazia, riconosciamo il tuo amore e viviamo nella comunione che tu ci doni.

Meditazione Pentecoste 28/05/2023

Sono due i pensieri che quest’anno vorrei condividere nella festa di Pentecoste.
Il primo riguarda lo Spirito Santo che è una Persona misteriosa, di cui è sempre difficile parlare. Di Gesù sappiamo cosa ha detto e cosa ha fatto; del Padre possiamo immaginare molte cose, forse non sempre giuste, proprio a partire da questo nome: Padre. Con lo Spirito Santo siamo in difficoltà anche solo a immaginare, però sappiamo che è lo Spirito di Gesù Risorto. Che cosa intendiamo, quando parliamo dello spirito di qualcuno?
Mi viene in mente il dialogo tra Elia e il suo discepolo Eliseo, poco prima che Elia fosse rapito in cielo. «Elia disse a Eliseo: “Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te”. Eliseo rispose: “Due terzi del tuo spirito diventino miei”» (2 Re 2,9).
Cosa intendeva dire Eliseo, chiedendo due terzi dello spirito di Elia? Due terzi del patrimonio del padre sembra fosse la parte che spettava in eredità al primogenito. Ma qui si parla di qualcosa di immateriale: lo spirito, appunto.
Possiamo immaginare che Eliseo si riferisca a ciò che caratterizzava in profondità la personalità e la missione del suo maestro, di Elia: la sua passione intransigente per l’alleanza con l’unico Dio, la sua forza e il suo coraggio davanti ai potenti, il suo distacco dalle comodità e dai beni terreni e magari anche i suoi poteri miracolosi, ma sempre al servizio della sua missione, mai per attirare su di sé l’attenzione o per tornaconto personale. Chiedendo una gran parte dello spirito di Elia, Eliseo intendeva dire che voleva assomigliare a lui e proseguire la sua missione.
Se pensiamo allo Spirito Santo come allo Spirito di Gesù, e se pensiamo a noi stessi come a discepoli che vogliono assomigliare al loro maestro e proseguire la sua missione, allora ci viene in aiuto proprio il brano del Vangelo di oggi, in cui Gesù dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22).
Gesù appare ai suoi, mostra loro il suo corpo ferito per amore e non chiede conto della loro viltà durante la sua passione, ma concede loro il suo perdono con una parola sola, che dice tutto: Pace. Poi li incarica di proseguire la sua missione e la riassume proprio nella Pace e nel perdono dei peccati, cioè nella riconciliazione con Dio: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21).
In questo senso lo Spirito di Gesù è (anche) il suo amore che si manifesta soprattutto nel perdono.
Il suo Spirito vive in noi quando amiamo e perdoniamo, quando siamo operatori di Pace, quando aiutiamo le persone a riconciliarsi tra loro e con Dio.
La compassione di Gesù, la sua forza mite, la sua conoscenza del mistero del Padre, la sua passione per la giustizia e la misericordia… insomma il suo Spirito, vive nei suoi discepoli.
E questo ci porta al secondo punto su cui volevo riflettere.
Molto spesso, nella tradizione spirituale cristiana, si è valorizzata la presenza e l’azione dello Spirito Santo in alcune persone chiamate “santi” e “sante” per la loro somiglianza a Cristo. In oriente sono stati chiamati proprio “pneumatofori”, cioè portatori dello Spirito Santo. C’è del vero in questo, naturalmente, ma secondo il Nuovo Testamento lo Spirito Santo è dato soprattutto alla comunità e alle comunità, affidando doni diversi a ciascun membro, ma per l’utilità comune.
In altre parole, lo Spirito di Gesù non dobbiamo cercarlo ciascuno per conto proprio, con una spiritualità individualista, ma in unione con tutta la comunità in cui vive la Chiesa. Per formare questa unità è decisivo proprio il perdono reciproco, che la riedifica ogni giorno da capo.
Lo Spirito Santo vive in noi solo se e quando siamo uniti nell’amore e a servizio gli uni degli altri.

Meditazione Ascensione 21/05/2023

In molte religioni e mitologie si parla di ascensione al cielo di individui ancora vivi o risuscitati dopo la morte. Gli antichi romani dicevano che Romolo fu rapito in cielo e fu divinizzato col nome di Quirino. Per la mitologia greca furono portati nell’Olimpo Ganimede, Ercole e Dioniso. Perfino di un filosofo del primo secolo, Apollonio di Tiana, qualcuno disse che era salito al cielo. Anche la Bibbia racconta che il patriarca Enoch fu rapito in cielo e così pure il profeta Elia. Però Enoch è una figura mitologica e anche se il profeta Elia è veramente esistito, la narrazione della sua vita è piena di particolari favolosi e miracolosi. Per noi oggi è un po’ difficile credere che sia stato rapito in cielo su un carro di fuoco (cf. 2 Re 2,11). Gesù stesso, nel Vangelo secondo Giovanni, afferma: «Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13).
Ma allora, chi ci può assicurare che l’ascensione al cielo di Gesù sia un fatto realmente accaduto, e non un racconto simbolico? In realtà, succede spesso nella Bibbia che realtà storica e simbolo non si oppongano l’una all’altro, ma si sostengano a vicenda. L’ascensione al cielo di Gesù è un fatto che il Nuovo Testamento presenta come realmente accaduto, ma possiede anche un significato simbolico, perché con questo segno Gesù volle trasmetterci un insegnamento.
Dopo quaranta giorni dalla sua risurrezione, Gesù volle far capire ai suoi discepoli che il tempo delle sue apparizioni visibili era finito: cominciava il tempo del credere senza vedere, il tempo della fede e non della visione, il nostro tempo.
Inoltre, Gesù volle far capire che con la sua risurrezione non solo aveva vinto la morte e aveva dato inizio a una nuova fase della storia umana, ma che proprio in virtù della sua morte e risurrezione era diventato il Signore, in senso pieno: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
L’ascensione non è una sorta di decollo di un viaggio spaziale; Gesù non è partito per andare da qualche parte, magari fuori dal sistema solare o addirittura dalla galassia. Il cielo nel quale Gesù è entrato non è quello visibile col telescopio, quello che gli inglesi chiamano sky, ma quello invisibile, che chiamano heaven. In italiano c’è una sola parola, cielo, a indicare queste due realtà così diverse, e da qui può nascere una confusione.
Gesù è salito al cielo: è entrato con il suo corpo glorioso e trasfigurato nel mondo divino; e siede alla destra del Padre: nell’antichità sedeva alla destra del re il suo primo ministro plenipotenziario.
«Tuttavia al presente non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa» (Eb 2,8) riconosce la Lettera agli Ebrei, ma nella fede confessiamo che tutta la storia si dirige ormai verso la sua ricapitolazione finale per essere giudicata da Cristo, Signore dei vivi e dei morti.
Il senso di questa festa, perciò, non consiste nella pura e semplice ammirazione di un evento prodigioso, anche se forse oggi non siamo molto tentati di guardare troppo il cielo. Probabilmente siamo più tentati di non alzare mai la testa, di credere che tutto dipenda da noi. L’ascensione al cielo di Gesù ci ricorda che nonostante tutto è lui che conduce la storia umana verso il suo compimento, e che questo nostro è il tempo della testimonianza animata dallo Spirito Santo, perciò dobbiamo pregare e agire cercando anzitutto la sua volontà.
Gesù è il Signore, ma chiede a ciascuno di noi di permettergli di regnare nella nostra vita.

Meditazione 6^ domenica di Pasqua 14/05/2023

Torniamo alle omelie, più brevi rispetto alle tre lunghe meditazioni su Gesù via verità e vita.
In questo weekend nella mia parrocchia celebriamo l’iniziazione cristiana (battesimo-cresimaeucaristia) di 2 ragazzine di quinta elementare e per altri nove coetanei la cresima e la prima comunione. A messa in parrocchia li ho visti raramente, credo. Forse vanno a messa da qualche altra parte? Speriamo.
Cosa dovrò dire? Fare finta di niente e dire due parole di circostanza? O sottolineare il problema e rovinare la festa a tutti?
Da cerchiobottista quale – ahimè – sono sempre stato, credo che farò così: racconterò del mio cinquantesimo compleanno. Da parenti, amici e parrocchiani ho ricevuto molti regali, tra i quali una grande borsa da viaggio, dell’abbigliamento tecnico per le mie escursioni in montagna, un coltello svizzero con tanti accessori: non so perché, ma mi sono sempre piaciuti i coltelli svizzeri, anche se poi li ho usati pochino. Poco prima del compleanno, che cade in gennaio, avevo approfittato dei saldi invernali e mi ero regalato ben due paia di scarpe, tipo barche, a bordo delle quali progettavo di iniziare la benedizione delle famiglie in parrocchia.
Poi, come credo tutti sappiano, qualche mese dopo ho avuto un incidente e sono diventato tetraplegico. La borsa l’ho usata per andare a Lourdes più di una volta, invece le scarpe invernali che non avevo mai indossato le ho regalate al fratello di un mio amico che porta il 46 come me; il coltello svizzero l’ho regalato a mia nipote scout e la giacca a vento è ancora chiusa nell’armadio: io sono diventato troppo grasso e non ho ancora trovato uno della mia taglia al quale regalarla.
Lo Spirito Santo che si riceve nei sacramenti è il dono più prezioso di tutti, ma non si sa cosa succederà di questo dono. Come dice il Vangelo di questa domenica, se amiamo Gesù e mettiamo in pratica i suoi insegnamenti/comandamenti, allora faremo esperienza di una presenza in noi che ci darà gioia: «Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21). Se viviamo in pienezza la vita cristiana, il dono dello Spirito Santo ci accompagnerà e ci porterà a fare delle scoperte inaspettate.
Se invece non parteciperemo alla vita della Chiesa, allora resterà chiuso come in un armadio, come un vestito bellissimo che è stato usato per la festa di un giorno e poi non è più stato indossato. A differenza dei miei regali di compleanno, lo Spirito Santo non si può regalare a qualcun altro se non lo si “adopera”, se non lo si vive. Possiamo trasmettere la vita di Gesù solo se la viviamo in noi stessi; possiamo testimoniare la nostra speranza – come dice San Pietro nella seconda lettura – solo se viviamo questa speranza. Gesù dice che «Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi». In realtà molti cristiani sono come il mondo: lo Spirito di verità non lo conoscono perché non pregano, non frequentano i sacramenti e non mettono in pratica gli insegnamenti di Gesù. Pensano che sia sufficiente comportarsi onestamente, lavorare e prendersi cura della propria famiglia. Sono cose buone e belle, anzi ottime, ma anche i buddhisti, gli ebrei e gli atei possono farle. I cristiani invece possono ricevere un dono molto più grande: lo Spirito Santo, la presenza di Gesù e del Padre dentro di sé, la vita di Dio come nuovo motore della propria vita. Anzi: questo dono lo hanno ricevuto tutti nel Battesimo e negli altri sacramenti, ma per molti rimane chiuso nell’armadio perché ci sono tante altre cose che sembrano più importanti, che vengono prima.
Qualcun altro invece lo vive senza saperlo: ama Dio e il prossimo proprio perché lo Spirito Santo gliene dà la possibilità, ma non è consapevole di questa presenza. Assomiglia a uno che ha ricevuto un bellissimo dono, ma non sa da chi, non sa chi ringraziare. Molti cristiani non saprebbero dire chi è lo Spirito Santo, ma Lui non ha bisogno di essere chiamato col suo nome per agire e trasfigurare la nostra vita. C’è, è presente e vivo e agisce se cerchiamo sinceramente di fare la volontà di Dio nella nostra vita.
Concluderò augurando a questi undici bambini e bambine di scoprire giorno per giorno la presenza di Dio in loro, la sua azione che riempie la vita di gioia e la trasforma a immagine di Gesù. Sarà sufficiente? Avrò adempiuto il mio dovere? C’è qualcos’altro che potrei e/o dovrei fare? Me lo chiedo sempre e spero che prima o poi troverò la risposta.

Meditazione 5^ domenica di Pasqua 07/05/2023

Nel brano di questa domenica Gesù dice: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Proviamo a capire cosa vuol dire.
La parte più comprensibile forse è la seconda: la meta è il Padre e l’unica via per giungere a Lui è Gesù stesso perché è l’unico che lo conosce (cf. 1,18). Gesù è la via in quanto unico rivelatore della verità, incaricato dal Padre di dare la vita all’umanità. In altre parole, Gesù è la via perché è la verità e la vita: cerchiamo allora di capire cosa significa che Gesù è la verità.
Per noi la verità consiste nell’accordo tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica: vere sono quelle parole o quelle frasi che corrispondono alla realtà. Ma se partiamo da questa idea astratta di verità la frase di Gesù non ha alcun senso: sarebbe un po’ come dire “Io sono la logica”, o “Io sono l’amicizia”. Evidentemente, nel Vangelo secondo Giovanni, la verità ha un altro significato.
Nell’AT ebraico, ’emet è collegato alla radice ’mn (da cui viene Amen): essere fermo, saldo. Quindi ’emet è la solidità essenziale di una cosa, ossia ciò che la rende sicura e degna di fiducia. Dio è assolutamente vero in questo senso, cioè è degno di fiducia ed è fedele alle sue promesse. Le parole sono vere se sono solidamente fondate. La vita di un uomo è vera se è fedele alle vie di Dio. C’è dunque un elemento morale del concetto ebraico di verità.
Nei libri apocalittici e sapienziali dell’AT, ‘verità’ è spesso sinonimo di ‘sapienza’: conoscere la verità è conoscere i piani di Dio (Sap 6,22). Il “libro della verità” in Dan 10,21 è un libro in cui sono scritti i disegni di Dio per il tempo della salvezza. Sap 3,9 promette a quanti confidano in Dio la comprensione della verità.
In altre parole, ‘verità’ non è, come per noi, il concetto di verità in generale, ma una ben precisa verità, forse potremmo dire la verità più importante di tutte le altre, la verità per eccellenza. E qual è questa verità? È appunto la verità espressa nel Vangelo secondo Giovanni dalle parole e dall’opera di Gesù. Volendola riassumere in una sola frase, viene comunemente identificata questa frase con Gv 3,16: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Questa è la verità che Gesù è venuto a rivelare, ma non la rivela solo con le parole, bensì con tutto se stesso, con la sua vita, le sue opere, la sua morte e risurrezione. Gesù fa parte di questa verità; Gesù è questa verità.
Se la verità è una persona, se la verità è Gesù Cristo, allora per conoscere la verità dobbiamo conoscere lui in tutti i modi in cui egli si manifesta a noi: nella sacra Scrittura, nella liturgia e nei sacramenti, nella vita della Chiesa e soprattutto nei poveri, nelle persone in ogni modo ferite o bisognose. Non tanto come destinatari della nostra attività caritativa, quasi che noi siamo i ricchi generosi che danno ai poveri, ma proprio come fonte di rivelazione: frequentandoli insieme alla comunità cristiana che prega e agisce ci è data la possibilità di conoscere meglio la verità di noi stessi e il piano di salvezza di Dio per il mondo, il dono di salvezza che è Gesù Cristo. La verità di Gesù si disvela nell’incontro personale con lui, in tutti i modi in cui egli si rende presente alla nostra coscienza per risvegliarla; in tutti i modi in cui chiama la nostra libertà a rispondergli.
Infine, cerchiamo di capire cosa significa che Gesù è la vita.
La vita che Gesù dona è altro dalla vita fisica, infatti nell’ultima Cena Gesù annuncia: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (14,19). Ciò significa che il mondo tra poco non vedrà più Gesù perché Gesù sarà ucciso, la sua vita fisica finirà in modo violento. Poiché però egli è vivo di una vita divina, che non può essere uccisa, e poiché anche i suoi discepoli riceveranno questa vita, essi lo vedranno di nuovo, potranno di nuovo incontrarlo anche se il mondo non lo vedrà più.
Allora, che cos’è questa vita che Gesù possiede in pienezza e dona ai suoi discepoli?
È un bene di cui gli uomini non hanno esperienza e del quale, quindi, si può parlare solo per analogia, in modo simbolico, come fa Giovanni. Questa vita consiste nella conoscenza amorosa di Dio e di Gesù Cristo, grazie alla quale i discepoli sperimentano di “essere in Gesù” e che Gesù è in loro. Questa unione profonda e intima con il Padre e con Gesù si perfezionerà con la risurrezione finale, mediante la quale tutto l’essere umano parteciperà alla vita divina. Perciò la risurrezione non sarà un ritorno alla vita fisica (che i discepoli devono essere pronti a offrire, come ha fatto Gesù). La risurrezione sarà il pieno passaggio di tutto l’essere umano, compreso il corpo, alla vita eterna e divina, quando la voce di Gesù chiamerà i morti fuori dai sepolcri. Chi ascolta la sua voce oggi (cioè, le obbedisce) potrà udirla nell’ultimo giorno. Per questo Gesù può dire di se stesso “Io sono la vita”: perché è lui che dona la vita nel tempo e nell’eternità a chi ascolta con fede la sua parola e gli obbedisce nell’amore.
A Gesù “via verità e vita” nell’avvento 2018 ho dedicato tre lunghe meditazioni che riporterò nei prossimi giorni sul mio profilo Facebook, per chi volesse leggere qualcosa di meno sbrigativo su questo argomento.

Meditazione 4^ domenica di Pasqua 30/04/2023

Ogni anno la quarta domenica di Pasqua è dedicata a leggere un brano del capitolo decimo del Vangelo secondo Giovanni: il discorso su Gesù buon pastore. Essendo questo l’anno A, il Vangelo domenicale ci propone i primi 10 versetti, dove però Gesù dice di essere, oltre che il pastore, la porta delle pecore, l’unica via di accesso all’ovile.
È un’immagine un po’ faticosa da capire: se la metafora del buon pastore è immediata, questa della porta richiede di pensare un po’ di più.
Gesù dice di essere la porta attraverso la quale entrano ed escono le pecore e il vero pastore (che è sempre lui) mentre ladri e briganti scavalcano il recinto perché il guardiano – o più precisamente il “portinaio” – non li fa passare.
È abbastanza evidente che il portinaio, in questo caso, è Dio, mentre le pecore sono i discepoli di Gesù che solo attraverso la sua mediazione (la “porta”) trovano pascolo, cioè alimento per la propria vita. Passare per la porta che è Cristo permette di evitare i falsi mediatori che si servono della religiosità “per ingannare, se possibile, gli eletti” (Mc 13,22). La fede non va sprecata accordandola a chi la sfrutta per interessi personali. I ladri e i briganti sono infatti quei sedicenti messia e profeti venuti prima di Gesù che hanno capeggiato delle rivolte finite male, ma anche dopo Gesù, fino a oggi, ci sono stati e ci sono dei leader religiosi abusanti.
Negli ultimi anni purtroppo ci sono stati molti scandali, anche nella diocesi di Padova, da parte di preti che si sono proposti come pastori affascinanti, hanno promesso di guidare i fedeli a un maggior benessere interiore, a una religiosità più coinvolgente e illuminata, ma poi hanno finito col fare quel che si legge al v. 10 del brano di oggi: “rubare, sacrificare, distruggere”. In particolare è utile notare che il secondo verbo (tradotto dalla CEI con “uccidere”) in realtà, dice letteralmente “sacrificare”: è tipico della falsa religiosità di questi falsi pastori chiedere sacrifici allo scopo di affermare se stessi, avere dei seguaci adoranti e guadagnarci sopra.
Sono numerosissimi nel Nuovo Testamento gli avvisi che mettono in guardia contro chi si comporta da “padrone delle persone” (1Pt 5,3), chi svolge un ministero ecclesiale mosso da “vergognoso interesse” (1Pt 5,2) o da avidità “di guadagni disonesti” (Tt 1,11). Si raccomanda di diffidare dei “seduttori” (2Gv 7), di chi mostra di avere una “mente corrotta” (2Tm 3,8) e cerca di ingannare le anime semplici (cf. 2Tm 3,1-9). Sono chiamati “falsi cristi” (Mt 24,24; Mc 13,22), “falsi profeti” (Mt 7,15; 24,11.24; Mc 13,22; 1Gv 4,1; ecc.) e “falsi maestri” (2Pt 2,1): sono coloro che “hanno una religiosità apparente ma che ne disprezzano la forza interiore” (2Tm 3,5).
Non sempre è facile riconoscerli, anche perché molto spesso all’inizio non sono così corrotti, ma dicono cose intelligenti e interessanti: sembrano dare ciò di cui molti sentono il bisogno, ovvero un messaggio religioso attuale, espresso in modo attraente. Ma allora, come riconoscerli?
Se dovessi fornire una formula semplice, la concentrerei in tre S: successo, soldi e sesso. Infatti, col passare del tempo, diventa sempre più evidente che cercano di attirare l’attenzione su di sé, anziché sul messaggio del Vangelo: sono affamati di protagonismo. Poi, con ogni mezzo si mettono ad accumulare denaro per sé e prima o poi commettono abusi sessuali, che è cosa ben diversa dall’instaurare una relazione di coppia.
I veri pastori invece sono umili, poveri e casti: non se-ducono, ma conducono a Cristo buon pastore, la porta che si apre su pascoli di libertà, non nelle prigioni dei “guru” di questo tempo.
Preghiamo perché i pastori della Chiesa conducano il gregge di Dio sempre e solo attraverso la porta che è Gesù e sappiano dare ciò di cui il gregge sente il bisogno.
Chi vuole, legga il secondo capitolo della seconda lettera di Pietro: sembra scritto per noi, oggi.
“Ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false” (2 Pt 2,1-3). “Essi stimano felicità il piacere d’un giorno; sono tutta sporcizia e vergogna; si dilettano dei loro inganni mentre fan festa con voi; han gli occhi pieni di disonesti desideri e sono insaziabili di peccato, adescano le anime instabili, hanno il cuore rotto alla cupidigia, figli di maledizione” (vv. 13-14). “Con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto” (vv. 18-19).

Meditazione 3^ domenica di Pasqua 23/04/2023

L’episodio di Emmaus è quasi un riassunto non del Vangelo, ma di tutto quello che accadrà dopo, durante la vita della Chiesa: è una specie di profezia.
Il fatto avviene nel giorno della risurrezione. Nel Vangelo secondo Luca quel primo giorno della settimana contiene tutti gli avvenimenti fino all’ascensione, anche se lo stesso evangelista negli Atti degli apostoli ci fa sapere che in realtà l’ascensione è avvenuta 40 giorni dopo la risurrezione.
Nel Vangelo questo è il giorno senza tramonto, il nuovo “eone”, la “seconda fase” dell’umanità.
I discepoli sono due, ma sappiamo solo uno dei due nomi, Cleofa, perché ciascuno possa identificarsi con l’altro. Camminano uscendo da Gerusalemme perché la missione della Chiesa sarà verso il mondo. Mentre camminano parlano e discutono. Questo secondo verbo può indicare che stanno litigando, perché la fraternità dei discepoli non sarà mai semplice né scontata: va ricostruita sempre daccapo. Gesù si affianca al loro camminare, perché il Signore sarà sempre con noi, ma i loro occhi e molte volte anche i nostri non sono capaci di riconoscerlo. Le domande di Gesù quasi “tirano fuori” dalla loro bocca in modo maieutico tutti gli articoli del kerygma.
Dicono le stesse cose che abbiamo ascoltato nella prima lettura nel discorso di Pietro: Gesù fu un profeta potente che mostrò molti segni, fu crocifisso e morì, ma dopo tre giorni la sua tomba fu trovata vuota e gli angeli apparvero alle donne testimoniando la sua risurrezione. I discepoli sanno tutto, dicono tutto correttamente, ma quel che manca loro è proprio la fede. Di fronte alle delusioni, agli avvenimenti che si svolgono in modo diverso da come si aspettavano, i discepoli saranno sempre tentati di fare delle letture parziali, delle analisi amareggiate e in definitiva mancanti di fede.
Gesù stesso si incarica di far capire loro come il fallimento faccia parte del piano di Dio: è lui stesso che illumina il senso della Scrittura e infonde speranza ai suoi. Forse a volte pensiamo che quel fallimento, la croce di Gesù, sia stato sufficiente una volta per tutte e che dalla risurrezione in poi dovremo raccogliere solo successi con la forza dello Spirito Santo. Non è così: anche se a parole ci diamo le più nobili motivazioni, nel successo molto spesso cerchiamo noi stessi, la nostra soddisfazione personale. Invece nella croce si aprono degli spazi di gratuità, la possibilità di credere in Dio anziché in noi stessi e di amare “a fondo perduto”. Ma questo richiede una conversione totale, la rinuncia ai propri progetti pur nobilissimi, una fiducia illimitata in Dio.
Spesso è nel naufragio dei nostri progetti che possiamo davvero trovare il Signore.
Così, Gesù guida i due di Emmaus alla fede e alla comprensione del pensiero di Dio e loro lo invitano a entrare in casa. Luca dice che “egli entrò per rimanere con loro”. Infatti, dopo che lo riconobbero allo spezzare del pane, non si dice che egli se ne andò, ma che sparì dalla loro vista.
La presenza del Signore è invisibile, ma è fedele: il Signore rimane con noi. Nel sacramento della Eucaristia lui si fa presente, ma non in un modo qualunque: è presente come colui che ha dato la sua vita, come colui che ha accettato di consegnare se stesso, per amore, nelle mani dei suoi nemici, come colui che è stato completamente rifiutato. Questo è ciò che dovremmo vedere nel sacramento che riceviamo ogni domenica.
Solo a questo punto i discepoli sono abilitati alla testimonianza: dopo che hanno compreso la necessità della croce e dopo che hanno sperimentato la presenza del Signore che non li abbandona mai.
Cleofa era il marito di Maria di Cleofa, appunto, la madre di Giacomo e Joses, due dei quattro “fratelli” di Gesù, quindi Cleofa era un parente abbastanza stretto di Gesù, probabilmente uno zio o qualcosa del genere. Non gli era bastato essere un parente, non gli era bastato nemmeno essere un discepolo: anche per lui, come per tutti i credenti di allora e di ogni tempo, era venuto il momento di confrontarsi con una situazione che appariva una “perdita” sotto tutti i punti di vista.
Era arrivato per lui, come viene anche per ciascuno di noi, il momento in cui decidere se andare avanti solo alla luce della fede o tornare “tutti a casa” cercando di salvare il salvabile e rifarsi una vita.
Gesù lo ha accompagnato insieme all’altro discepolo, che siamo noi, sulla strada di Emmaus: ci accompagni sempre il Signore e ci doni di riconoscerlo allo spezzare del pane non solo in chiesa, ma anche nelle croci presenti nelle nostre vite.