Meditazioni

Meditazione S. Trinità 04/06/2023

Oggi la chiesa celebra la solennità della Trinità santa di Dio. In questo nostro mondo non abbiamo nessuna esperienza di un essere multipersonale: umani e animali sono tutti individui. Invece Dio si è rivelato a noi come unico, ma in tre Persone: non tre dèi, non tre parti, non tre aspetti, ma un solo Dio in tre Persone. Inutile cercare paragoni, che non reggono: è meglio meditare quel che Dio ha detto di sé, come ha voluto farsi conoscere da noi.
Nella seconda lettura San Paolo conclude la seconda lettera ai Corinzi con alcune parole che sono diventate anche un saluto liturgico all’inizio della messa: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». Sono parole che possono aiutarci, se non a comprendere, almeno ad adorare la Trinità santa di Dio, a non sentirla lontana da noi.
Vediamo uno per uno questi tre nomi e cerchiamo di comprenderli.
«La grazia del Signore Gesù Cristo», che cos’è? È la sua benevolenza gratuita che lo ha spinto a dire e a fare tutto ciò che ha detto e ha fatto per il nostro bene, per la nostra salvezza. In italiano noi usiamo la parola latina ‘gratis’, che vuol dire proprio “per grazia”, cioè senza contraccambio, senza nessun merito precedente, per libera iniziativa, gratuita, appunto. Si entra davvero nella fede cristiana quando ci si accorge, si comprende, si crede che siamo amati gratuitamente dal Signore Gesù, che siamo preziosi ai suoi occhi, che il suo amore per noi non è condizionato da quel che facciamo. Non abbiamo meritato la salvezza: è gratis, è grazia, è amore preveniente.
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16).
Questo «amore di Dio», del Padre, si è manifestato infatti donandoci il suo Figlio, come dice il brano del Vangelo di oggi: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Ciascuno di noi è amato da Dio, dal Padre, fin dall’eternità: siamo stati «scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore» (Ef 1,4). Nessuno ha mai visto Dio (cf. Gv 1,18): Gesù, il Figlio di Dio, è lui che ce lo ha raccontato con le sue parole e le sue azioni. Da ciò che Gesù ha detto e fatto possiamo capire e credere che il Padre ci ama, che il suo modo di relazionarsi con
noi è l’amore.
«La comunione dello Spirito Santo»: come dicevo al termine dell’omelia di domenica scorsa, lo Spirito Santo è donato alla comunità, con doni diversi per ciascuno, ma per formare un unico corpo, per creare comunione tra noi. L’amore gratuito di Dio chiede di essere condiviso, chiede di essere ridonato tra noi. È l’unico modo autentico di ricambiare davvero l’amore di Dio: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
Lo stesso Spirito che viene invocato dal sacerdote durante la messa per trasformare il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo offerti per noi, viene invocato anche sull’assemblea «perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito». Questo è il sacrificio gradito a Dio: fare spazio agli altri, farli crescere, cercare di essere uniti gli uni gli altri, servendoci reciprocamente.
La grazia, l’amore e la comunione. Il Figlio, il Padre e lo Spirito: Dio venuto fino a noi, Dio da cui veniamo noi, Dio che abita in noi.
Santa Trinità, unico Dio, fa’ che accogliamo la tua grazia, riconosciamo il tuo amore e viviamo nella comunione che tu ci doni.

Meditazione Pentecoste 28/05/2023

Sono due i pensieri che quest’anno vorrei condividere nella festa di Pentecoste.
Il primo riguarda lo Spirito Santo che è una Persona misteriosa, di cui è sempre difficile parlare. Di Gesù sappiamo cosa ha detto e cosa ha fatto; del Padre possiamo immaginare molte cose, forse non sempre giuste, proprio a partire da questo nome: Padre. Con lo Spirito Santo siamo in difficoltà anche solo a immaginare, però sappiamo che è lo Spirito di Gesù Risorto. Che cosa intendiamo, quando parliamo dello spirito di qualcuno?
Mi viene in mente il dialogo tra Elia e il suo discepolo Eliseo, poco prima che Elia fosse rapito in cielo. «Elia disse a Eliseo: “Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te”. Eliseo rispose: “Due terzi del tuo spirito diventino miei”» (2 Re 2,9).
Cosa intendeva dire Eliseo, chiedendo due terzi dello spirito di Elia? Due terzi del patrimonio del padre sembra fosse la parte che spettava in eredità al primogenito. Ma qui si parla di qualcosa di immateriale: lo spirito, appunto.
Possiamo immaginare che Eliseo si riferisca a ciò che caratterizzava in profondità la personalità e la missione del suo maestro, di Elia: la sua passione intransigente per l’alleanza con l’unico Dio, la sua forza e il suo coraggio davanti ai potenti, il suo distacco dalle comodità e dai beni terreni e magari anche i suoi poteri miracolosi, ma sempre al servizio della sua missione, mai per attirare su di sé l’attenzione o per tornaconto personale. Chiedendo una gran parte dello spirito di Elia, Eliseo intendeva dire che voleva assomigliare a lui e proseguire la sua missione.
Se pensiamo allo Spirito Santo come allo Spirito di Gesù, e se pensiamo a noi stessi come a discepoli che vogliono assomigliare al loro maestro e proseguire la sua missione, allora ci viene in aiuto proprio il brano del Vangelo di oggi, in cui Gesù dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22).
Gesù appare ai suoi, mostra loro il suo corpo ferito per amore e non chiede conto della loro viltà durante la sua passione, ma concede loro il suo perdono con una parola sola, che dice tutto: Pace. Poi li incarica di proseguire la sua missione e la riassume proprio nella Pace e nel perdono dei peccati, cioè nella riconciliazione con Dio: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21).
In questo senso lo Spirito di Gesù è (anche) il suo amore che si manifesta soprattutto nel perdono.
Il suo Spirito vive in noi quando amiamo e perdoniamo, quando siamo operatori di Pace, quando aiutiamo le persone a riconciliarsi tra loro e con Dio.
La compassione di Gesù, la sua forza mite, la sua conoscenza del mistero del Padre, la sua passione per la giustizia e la misericordia… insomma il suo Spirito, vive nei suoi discepoli.
E questo ci porta al secondo punto su cui volevo riflettere.
Molto spesso, nella tradizione spirituale cristiana, si è valorizzata la presenza e l’azione dello Spirito Santo in alcune persone chiamate “santi” e “sante” per la loro somiglianza a Cristo. In oriente sono stati chiamati proprio “pneumatofori”, cioè portatori dello Spirito Santo. C’è del vero in questo, naturalmente, ma secondo il Nuovo Testamento lo Spirito Santo è dato soprattutto alla comunità e alle comunità, affidando doni diversi a ciascun membro, ma per l’utilità comune.
In altre parole, lo Spirito di Gesù non dobbiamo cercarlo ciascuno per conto proprio, con una spiritualità individualista, ma in unione con tutta la comunità in cui vive la Chiesa. Per formare questa unità è decisivo proprio il perdono reciproco, che la riedifica ogni giorno da capo.
Lo Spirito Santo vive in noi solo se e quando siamo uniti nell’amore e a servizio gli uni degli altri.

Meditazione Ascensione 21/05/2023

In molte religioni e mitologie si parla di ascensione al cielo di individui ancora vivi o risuscitati dopo la morte. Gli antichi romani dicevano che Romolo fu rapito in cielo e fu divinizzato col nome di Quirino. Per la mitologia greca furono portati nell’Olimpo Ganimede, Ercole e Dioniso. Perfino di un filosofo del primo secolo, Apollonio di Tiana, qualcuno disse che era salito al cielo. Anche la Bibbia racconta che il patriarca Enoch fu rapito in cielo e così pure il profeta Elia. Però Enoch è una figura mitologica e anche se il profeta Elia è veramente esistito, la narrazione della sua vita è piena di particolari favolosi e miracolosi. Per noi oggi è un po’ difficile credere che sia stato rapito in cielo su un carro di fuoco (cf. 2 Re 2,11). Gesù stesso, nel Vangelo secondo Giovanni, afferma: «Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13).
Ma allora, chi ci può assicurare che l’ascensione al cielo di Gesù sia un fatto realmente accaduto, e non un racconto simbolico? In realtà, succede spesso nella Bibbia che realtà storica e simbolo non si oppongano l’una all’altro, ma si sostengano a vicenda. L’ascensione al cielo di Gesù è un fatto che il Nuovo Testamento presenta come realmente accaduto, ma possiede anche un significato simbolico, perché con questo segno Gesù volle trasmetterci un insegnamento.
Dopo quaranta giorni dalla sua risurrezione, Gesù volle far capire ai suoi discepoli che il tempo delle sue apparizioni visibili era finito: cominciava il tempo del credere senza vedere, il tempo della fede e non della visione, il nostro tempo.
Inoltre, Gesù volle far capire che con la sua risurrezione non solo aveva vinto la morte e aveva dato inizio a una nuova fase della storia umana, ma che proprio in virtù della sua morte e risurrezione era diventato il Signore, in senso pieno: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
L’ascensione non è una sorta di decollo di un viaggio spaziale; Gesù non è partito per andare da qualche parte, magari fuori dal sistema solare o addirittura dalla galassia. Il cielo nel quale Gesù è entrato non è quello visibile col telescopio, quello che gli inglesi chiamano sky, ma quello invisibile, che chiamano heaven. In italiano c’è una sola parola, cielo, a indicare queste due realtà così diverse, e da qui può nascere una confusione.
Gesù è salito al cielo: è entrato con il suo corpo glorioso e trasfigurato nel mondo divino; e siede alla destra del Padre: nell’antichità sedeva alla destra del re il suo primo ministro plenipotenziario.
«Tuttavia al presente non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa» (Eb 2,8) riconosce la Lettera agli Ebrei, ma nella fede confessiamo che tutta la storia si dirige ormai verso la sua ricapitolazione finale per essere giudicata da Cristo, Signore dei vivi e dei morti.
Il senso di questa festa, perciò, non consiste nella pura e semplice ammirazione di un evento prodigioso, anche se forse oggi non siamo molto tentati di guardare troppo il cielo. Probabilmente siamo più tentati di non alzare mai la testa, di credere che tutto dipenda da noi. L’ascensione al cielo di Gesù ci ricorda che nonostante tutto è lui che conduce la storia umana verso il suo compimento, e che questo nostro è il tempo della testimonianza animata dallo Spirito Santo, perciò dobbiamo pregare e agire cercando anzitutto la sua volontà.
Gesù è il Signore, ma chiede a ciascuno di noi di permettergli di regnare nella nostra vita.

Meditazione 6^ domenica di Pasqua 14/05/2023

Torniamo alle omelie, più brevi rispetto alle tre lunghe meditazioni su Gesù via verità e vita.
In questo weekend nella mia parrocchia celebriamo l’iniziazione cristiana (battesimo-cresimaeucaristia) di 2 ragazzine di quinta elementare e per altri nove coetanei la cresima e la prima comunione. A messa in parrocchia li ho visti raramente, credo. Forse vanno a messa da qualche altra parte? Speriamo.
Cosa dovrò dire? Fare finta di niente e dire due parole di circostanza? O sottolineare il problema e rovinare la festa a tutti?
Da cerchiobottista quale – ahimè – sono sempre stato, credo che farò così: racconterò del mio cinquantesimo compleanno. Da parenti, amici e parrocchiani ho ricevuto molti regali, tra i quali una grande borsa da viaggio, dell’abbigliamento tecnico per le mie escursioni in montagna, un coltello svizzero con tanti accessori: non so perché, ma mi sono sempre piaciuti i coltelli svizzeri, anche se poi li ho usati pochino. Poco prima del compleanno, che cade in gennaio, avevo approfittato dei saldi invernali e mi ero regalato ben due paia di scarpe, tipo barche, a bordo delle quali progettavo di iniziare la benedizione delle famiglie in parrocchia.
Poi, come credo tutti sappiano, qualche mese dopo ho avuto un incidente e sono diventato tetraplegico. La borsa l’ho usata per andare a Lourdes più di una volta, invece le scarpe invernali che non avevo mai indossato le ho regalate al fratello di un mio amico che porta il 46 come me; il coltello svizzero l’ho regalato a mia nipote scout e la giacca a vento è ancora chiusa nell’armadio: io sono diventato troppo grasso e non ho ancora trovato uno della mia taglia al quale regalarla.
Lo Spirito Santo che si riceve nei sacramenti è il dono più prezioso di tutti, ma non si sa cosa succederà di questo dono. Come dice il Vangelo di questa domenica, se amiamo Gesù e mettiamo in pratica i suoi insegnamenti/comandamenti, allora faremo esperienza di una presenza in noi che ci darà gioia: «Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21). Se viviamo in pienezza la vita cristiana, il dono dello Spirito Santo ci accompagnerà e ci porterà a fare delle scoperte inaspettate.
Se invece non parteciperemo alla vita della Chiesa, allora resterà chiuso come in un armadio, come un vestito bellissimo che è stato usato per la festa di un giorno e poi non è più stato indossato. A differenza dei miei regali di compleanno, lo Spirito Santo non si può regalare a qualcun altro se non lo si “adopera”, se non lo si vive. Possiamo trasmettere la vita di Gesù solo se la viviamo in noi stessi; possiamo testimoniare la nostra speranza – come dice San Pietro nella seconda lettura – solo se viviamo questa speranza. Gesù dice che «Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi». In realtà molti cristiani sono come il mondo: lo Spirito di verità non lo conoscono perché non pregano, non frequentano i sacramenti e non mettono in pratica gli insegnamenti di Gesù. Pensano che sia sufficiente comportarsi onestamente, lavorare e prendersi cura della propria famiglia. Sono cose buone e belle, anzi ottime, ma anche i buddhisti, gli ebrei e gli atei possono farle. I cristiani invece possono ricevere un dono molto più grande: lo Spirito Santo, la presenza di Gesù e del Padre dentro di sé, la vita di Dio come nuovo motore della propria vita. Anzi: questo dono lo hanno ricevuto tutti nel Battesimo e negli altri sacramenti, ma per molti rimane chiuso nell’armadio perché ci sono tante altre cose che sembrano più importanti, che vengono prima.
Qualcun altro invece lo vive senza saperlo: ama Dio e il prossimo proprio perché lo Spirito Santo gliene dà la possibilità, ma non è consapevole di questa presenza. Assomiglia a uno che ha ricevuto un bellissimo dono, ma non sa da chi, non sa chi ringraziare. Molti cristiani non saprebbero dire chi è lo Spirito Santo, ma Lui non ha bisogno di essere chiamato col suo nome per agire e trasfigurare la nostra vita. C’è, è presente e vivo e agisce se cerchiamo sinceramente di fare la volontà di Dio nella nostra vita.
Concluderò augurando a questi undici bambini e bambine di scoprire giorno per giorno la presenza di Dio in loro, la sua azione che riempie la vita di gioia e la trasforma a immagine di Gesù. Sarà sufficiente? Avrò adempiuto il mio dovere? C’è qualcos’altro che potrei e/o dovrei fare? Me lo chiedo sempre e spero che prima o poi troverò la risposta.

Meditazione 5^ domenica di Pasqua 07/05/2023

Nel brano di questa domenica Gesù dice: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Proviamo a capire cosa vuol dire.
La parte più comprensibile forse è la seconda: la meta è il Padre e l’unica via per giungere a Lui è Gesù stesso perché è l’unico che lo conosce (cf. 1,18). Gesù è la via in quanto unico rivelatore della verità, incaricato dal Padre di dare la vita all’umanità. In altre parole, Gesù è la via perché è la verità e la vita: cerchiamo allora di capire cosa significa che Gesù è la verità.
Per noi la verità consiste nell’accordo tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica: vere sono quelle parole o quelle frasi che corrispondono alla realtà. Ma se partiamo da questa idea astratta di verità la frase di Gesù non ha alcun senso: sarebbe un po’ come dire “Io sono la logica”, o “Io sono l’amicizia”. Evidentemente, nel Vangelo secondo Giovanni, la verità ha un altro significato.
Nell’AT ebraico, ’emet è collegato alla radice ’mn (da cui viene Amen): essere fermo, saldo. Quindi ’emet è la solidità essenziale di una cosa, ossia ciò che la rende sicura e degna di fiducia. Dio è assolutamente vero in questo senso, cioè è degno di fiducia ed è fedele alle sue promesse. Le parole sono vere se sono solidamente fondate. La vita di un uomo è vera se è fedele alle vie di Dio. C’è dunque un elemento morale del concetto ebraico di verità.
Nei libri apocalittici e sapienziali dell’AT, ‘verità’ è spesso sinonimo di ‘sapienza’: conoscere la verità è conoscere i piani di Dio (Sap 6,22). Il “libro della verità” in Dan 10,21 è un libro in cui sono scritti i disegni di Dio per il tempo della salvezza. Sap 3,9 promette a quanti confidano in Dio la comprensione della verità.
In altre parole, ‘verità’ non è, come per noi, il concetto di verità in generale, ma una ben precisa verità, forse potremmo dire la verità più importante di tutte le altre, la verità per eccellenza. E qual è questa verità? È appunto la verità espressa nel Vangelo secondo Giovanni dalle parole e dall’opera di Gesù. Volendola riassumere in una sola frase, viene comunemente identificata questa frase con Gv 3,16: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Questa è la verità che Gesù è venuto a rivelare, ma non la rivela solo con le parole, bensì con tutto se stesso, con la sua vita, le sue opere, la sua morte e risurrezione. Gesù fa parte di questa verità; Gesù è questa verità.
Se la verità è una persona, se la verità è Gesù Cristo, allora per conoscere la verità dobbiamo conoscere lui in tutti i modi in cui egli si manifesta a noi: nella sacra Scrittura, nella liturgia e nei sacramenti, nella vita della Chiesa e soprattutto nei poveri, nelle persone in ogni modo ferite o bisognose. Non tanto come destinatari della nostra attività caritativa, quasi che noi siamo i ricchi generosi che danno ai poveri, ma proprio come fonte di rivelazione: frequentandoli insieme alla comunità cristiana che prega e agisce ci è data la possibilità di conoscere meglio la verità di noi stessi e il piano di salvezza di Dio per il mondo, il dono di salvezza che è Gesù Cristo. La verità di Gesù si disvela nell’incontro personale con lui, in tutti i modi in cui egli si rende presente alla nostra coscienza per risvegliarla; in tutti i modi in cui chiama la nostra libertà a rispondergli.
Infine, cerchiamo di capire cosa significa che Gesù è la vita.
La vita che Gesù dona è altro dalla vita fisica, infatti nell’ultima Cena Gesù annuncia: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (14,19). Ciò significa che il mondo tra poco non vedrà più Gesù perché Gesù sarà ucciso, la sua vita fisica finirà in modo violento. Poiché però egli è vivo di una vita divina, che non può essere uccisa, e poiché anche i suoi discepoli riceveranno questa vita, essi lo vedranno di nuovo, potranno di nuovo incontrarlo anche se il mondo non lo vedrà più.
Allora, che cos’è questa vita che Gesù possiede in pienezza e dona ai suoi discepoli?
È un bene di cui gli uomini non hanno esperienza e del quale, quindi, si può parlare solo per analogia, in modo simbolico, come fa Giovanni. Questa vita consiste nella conoscenza amorosa di Dio e di Gesù Cristo, grazie alla quale i discepoli sperimentano di “essere in Gesù” e che Gesù è in loro. Questa unione profonda e intima con il Padre e con Gesù si perfezionerà con la risurrezione finale, mediante la quale tutto l’essere umano parteciperà alla vita divina. Perciò la risurrezione non sarà un ritorno alla vita fisica (che i discepoli devono essere pronti a offrire, come ha fatto Gesù). La risurrezione sarà il pieno passaggio di tutto l’essere umano, compreso il corpo, alla vita eterna e divina, quando la voce di Gesù chiamerà i morti fuori dai sepolcri. Chi ascolta la sua voce oggi (cioè, le obbedisce) potrà udirla nell’ultimo giorno. Per questo Gesù può dire di se stesso “Io sono la vita”: perché è lui che dona la vita nel tempo e nell’eternità a chi ascolta con fede la sua parola e gli obbedisce nell’amore.
A Gesù “via verità e vita” nell’avvento 2018 ho dedicato tre lunghe meditazioni che riporterò nei prossimi giorni sul mio profilo Facebook, per chi volesse leggere qualcosa di meno sbrigativo su questo argomento.

Meditazione 4^ domenica di Pasqua 30/04/2023

Ogni anno la quarta domenica di Pasqua è dedicata a leggere un brano del capitolo decimo del Vangelo secondo Giovanni: il discorso su Gesù buon pastore. Essendo questo l’anno A, il Vangelo domenicale ci propone i primi 10 versetti, dove però Gesù dice di essere, oltre che il pastore, la porta delle pecore, l’unica via di accesso all’ovile.
È un’immagine un po’ faticosa da capire: se la metafora del buon pastore è immediata, questa della porta richiede di pensare un po’ di più.
Gesù dice di essere la porta attraverso la quale entrano ed escono le pecore e il vero pastore (che è sempre lui) mentre ladri e briganti scavalcano il recinto perché il guardiano – o più precisamente il “portinaio” – non li fa passare.
È abbastanza evidente che il portinaio, in questo caso, è Dio, mentre le pecore sono i discepoli di Gesù che solo attraverso la sua mediazione (la “porta”) trovano pascolo, cioè alimento per la propria vita. Passare per la porta che è Cristo permette di evitare i falsi mediatori che si servono della religiosità “per ingannare, se possibile, gli eletti” (Mc 13,22). La fede non va sprecata accordandola a chi la sfrutta per interessi personali. I ladri e i briganti sono infatti quei sedicenti messia e profeti venuti prima di Gesù che hanno capeggiato delle rivolte finite male, ma anche dopo Gesù, fino a oggi, ci sono stati e ci sono dei leader religiosi abusanti.
Negli ultimi anni purtroppo ci sono stati molti scandali, anche nella diocesi di Padova, da parte di preti che si sono proposti come pastori affascinanti, hanno promesso di guidare i fedeli a un maggior benessere interiore, a una religiosità più coinvolgente e illuminata, ma poi hanno finito col fare quel che si legge al v. 10 del brano di oggi: “rubare, sacrificare, distruggere”. In particolare è utile notare che il secondo verbo (tradotto dalla CEI con “uccidere”) in realtà, dice letteralmente “sacrificare”: è tipico della falsa religiosità di questi falsi pastori chiedere sacrifici allo scopo di affermare se stessi, avere dei seguaci adoranti e guadagnarci sopra.
Sono numerosissimi nel Nuovo Testamento gli avvisi che mettono in guardia contro chi si comporta da “padrone delle persone” (1Pt 5,3), chi svolge un ministero ecclesiale mosso da “vergognoso interesse” (1Pt 5,2) o da avidità “di guadagni disonesti” (Tt 1,11). Si raccomanda di diffidare dei “seduttori” (2Gv 7), di chi mostra di avere una “mente corrotta” (2Tm 3,8) e cerca di ingannare le anime semplici (cf. 2Tm 3,1-9). Sono chiamati “falsi cristi” (Mt 24,24; Mc 13,22), “falsi profeti” (Mt 7,15; 24,11.24; Mc 13,22; 1Gv 4,1; ecc.) e “falsi maestri” (2Pt 2,1): sono coloro che “hanno una religiosità apparente ma che ne disprezzano la forza interiore” (2Tm 3,5).
Non sempre è facile riconoscerli, anche perché molto spesso all’inizio non sono così corrotti, ma dicono cose intelligenti e interessanti: sembrano dare ciò di cui molti sentono il bisogno, ovvero un messaggio religioso attuale, espresso in modo attraente. Ma allora, come riconoscerli?
Se dovessi fornire una formula semplice, la concentrerei in tre S: successo, soldi e sesso. Infatti, col passare del tempo, diventa sempre più evidente che cercano di attirare l’attenzione su di sé, anziché sul messaggio del Vangelo: sono affamati di protagonismo. Poi, con ogni mezzo si mettono ad accumulare denaro per sé e prima o poi commettono abusi sessuali, che è cosa ben diversa dall’instaurare una relazione di coppia.
I veri pastori invece sono umili, poveri e casti: non se-ducono, ma conducono a Cristo buon pastore, la porta che si apre su pascoli di libertà, non nelle prigioni dei “guru” di questo tempo.
Preghiamo perché i pastori della Chiesa conducano il gregge di Dio sempre e solo attraverso la porta che è Gesù e sappiano dare ciò di cui il gregge sente il bisogno.
Chi vuole, legga il secondo capitolo della seconda lettera di Pietro: sembra scritto per noi, oggi.
“Ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false” (2 Pt 2,1-3). “Essi stimano felicità il piacere d’un giorno; sono tutta sporcizia e vergogna; si dilettano dei loro inganni mentre fan festa con voi; han gli occhi pieni di disonesti desideri e sono insaziabili di peccato, adescano le anime instabili, hanno il cuore rotto alla cupidigia, figli di maledizione” (vv. 13-14). “Con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto” (vv. 18-19).

Meditazione 3^ domenica di Pasqua 23/04/2023

L’episodio di Emmaus è quasi un riassunto non del Vangelo, ma di tutto quello che accadrà dopo, durante la vita della Chiesa: è una specie di profezia.
Il fatto avviene nel giorno della risurrezione. Nel Vangelo secondo Luca quel primo giorno della settimana contiene tutti gli avvenimenti fino all’ascensione, anche se lo stesso evangelista negli Atti degli apostoli ci fa sapere che in realtà l’ascensione è avvenuta 40 giorni dopo la risurrezione.
Nel Vangelo questo è il giorno senza tramonto, il nuovo “eone”, la “seconda fase” dell’umanità.
I discepoli sono due, ma sappiamo solo uno dei due nomi, Cleofa, perché ciascuno possa identificarsi con l’altro. Camminano uscendo da Gerusalemme perché la missione della Chiesa sarà verso il mondo. Mentre camminano parlano e discutono. Questo secondo verbo può indicare che stanno litigando, perché la fraternità dei discepoli non sarà mai semplice né scontata: va ricostruita sempre daccapo. Gesù si affianca al loro camminare, perché il Signore sarà sempre con noi, ma i loro occhi e molte volte anche i nostri non sono capaci di riconoscerlo. Le domande di Gesù quasi “tirano fuori” dalla loro bocca in modo maieutico tutti gli articoli del kerygma.
Dicono le stesse cose che abbiamo ascoltato nella prima lettura nel discorso di Pietro: Gesù fu un profeta potente che mostrò molti segni, fu crocifisso e morì, ma dopo tre giorni la sua tomba fu trovata vuota e gli angeli apparvero alle donne testimoniando la sua risurrezione. I discepoli sanno tutto, dicono tutto correttamente, ma quel che manca loro è proprio la fede. Di fronte alle delusioni, agli avvenimenti che si svolgono in modo diverso da come si aspettavano, i discepoli saranno sempre tentati di fare delle letture parziali, delle analisi amareggiate e in definitiva mancanti di fede.
Gesù stesso si incarica di far capire loro come il fallimento faccia parte del piano di Dio: è lui stesso che illumina il senso della Scrittura e infonde speranza ai suoi. Forse a volte pensiamo che quel fallimento, la croce di Gesù, sia stato sufficiente una volta per tutte e che dalla risurrezione in poi dovremo raccogliere solo successi con la forza dello Spirito Santo. Non è così: anche se a parole ci diamo le più nobili motivazioni, nel successo molto spesso cerchiamo noi stessi, la nostra soddisfazione personale. Invece nella croce si aprono degli spazi di gratuità, la possibilità di credere in Dio anziché in noi stessi e di amare “a fondo perduto”. Ma questo richiede una conversione totale, la rinuncia ai propri progetti pur nobilissimi, una fiducia illimitata in Dio.
Spesso è nel naufragio dei nostri progetti che possiamo davvero trovare il Signore.
Così, Gesù guida i due di Emmaus alla fede e alla comprensione del pensiero di Dio e loro lo invitano a entrare in casa. Luca dice che “egli entrò per rimanere con loro”. Infatti, dopo che lo riconobbero allo spezzare del pane, non si dice che egli se ne andò, ma che sparì dalla loro vista.
La presenza del Signore è invisibile, ma è fedele: il Signore rimane con noi. Nel sacramento della Eucaristia lui si fa presente, ma non in un modo qualunque: è presente come colui che ha dato la sua vita, come colui che ha accettato di consegnare se stesso, per amore, nelle mani dei suoi nemici, come colui che è stato completamente rifiutato. Questo è ciò che dovremmo vedere nel sacramento che riceviamo ogni domenica.
Solo a questo punto i discepoli sono abilitati alla testimonianza: dopo che hanno compreso la necessità della croce e dopo che hanno sperimentato la presenza del Signore che non li abbandona mai.
Cleofa era il marito di Maria di Cleofa, appunto, la madre di Giacomo e Joses, due dei quattro “fratelli” di Gesù, quindi Cleofa era un parente abbastanza stretto di Gesù, probabilmente uno zio o qualcosa del genere. Non gli era bastato essere un parente, non gli era bastato nemmeno essere un discepolo: anche per lui, come per tutti i credenti di allora e di ogni tempo, era venuto il momento di confrontarsi con una situazione che appariva una “perdita” sotto tutti i punti di vista.
Era arrivato per lui, come viene anche per ciascuno di noi, il momento in cui decidere se andare avanti solo alla luce della fede o tornare “tutti a casa” cercando di salvare il salvabile e rifarsi una vita.
Gesù lo ha accompagnato insieme all’altro discepolo, che siamo noi, sulla strada di Emmaus: ci accompagni sempre il Signore e ci doni di riconoscerlo allo spezzare del pane non solo in chiesa, ma anche nelle croci presenti nelle nostre vite.