Quando ero bambino, il paradiso e l’inferno erano argomenti molto presenti nella catechesi: erano descritti rispettivamente come premio e castigo per le opere – buone o cattive – compiute in vita.
Invece Gesù parlava molto raramente del paradiso e dell’inferno e questa parabola è una di quelle poche occasioni. Gesù racconta che il povero Lazzaro è accolto nell’abbraccio di Abramo non perché abbia fatto tante opere buone, non perché abbia accumulato meriti particolari, ma “solo” perché ha sofferto molto. “Beati gli afflitti, perché saranno consolati”, dice una delle beatitudini.
D’altra parte, il ricco finisce tra i tormenti negli inferi anche se non ha commesso chissà quali peccati: il motivo è che non ha fatto niente per aiutare Lazzaro, quel povero che giaceva proprio davanti alla porta della sua casa.
Quando preparo i bambini alla prima confessione recito il “Confesso a Dio onnipotente”, che molti di loro non sanno perché non partecipano quasi mai alla Messa. Faccio notare che quando si dice che “ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni” c’è una progressione di gravità: i peccati cominciano con i pensieri, che sono le intenzioni, anche se poi magari non si realizzano; poi ci sono le parole cattive che fanno male; poi le opere, cioè le azioni malvagie. Ma i peccati più gravi di tutti sono le omissioni, cioè quel bene che non ho fatto anche se potevo e dovevo farlo.
Infatti nella parabola del giudizio finale gli unici peccati che vengono nominati sono le omissioni: “Avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere…”.
Questo ci può fare un po’ paura perché sappiamo (ma soprattutto immaginiamo) che in teoria ciascuno di noi potrebbe fare tantissime cose buone. Siamo dunque carichi di moltissimi peccati di omissione? No: non si tratta di quel bene che (in teoria) potrei fare, ma di quella persona reale e concreta che ho incontrato e aveva bisogno di quel mio aiuto che ero in grado di dare, e non ho fatto. Nella parabola del buon samaritano il sacerdote e il levita che non si fermarono a soccorrere quel pover’uomo non erano assassini, ma la loro omissione di soccorso poteva ugualmente diventare una condanna a morte per quel poveretto. Nella vita di oggi, spesso affannata, sempre di corsa, fermarsi e interrompere i propri programmi per ascoltare e aiutare chi ne ha bisogno può essere anche molto costoso, ma a volte ci è richiesto proprio questo, perché c’è un bene da compiere esattamente in quel momento, e non può aspettare.
Altre volte invece ci è data la possibilità di riflettere con più calma per dare alle nostre scelte delle priorità diverse da quelle che ci farebbero più comodo, per aiutare chi ne ha bisogno, il quale molto spesso non ha la forza di chiedere e rischia di restare invisibile, come Lazzaro. C’è infatti un salmo che dice: “Beato l’uomo che ha cura del debole” (Sal 40,2), ma un’altra traduzione suona così: “Beato colui che discerne il misero”, cioè beato chi se ne accorge, chi riesce a vederlo (e agisce di conseguenza).
San Pietro, nella sua prima lettera, afferma: “Soprattutto conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati” (1Pt 4,8). Carità è amore che si concretizza nel dare ascolto e aiuto a chi è bisognoso, nella capacità di accorgersi e mettersi a sua disposizione.
Meditazione 26^ domenica del tempo ordinario 28/09/2025
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