Il brano evangelico di questa domenica ci presenta l’immagine di Gesù “vera vite” e dei tralci che sono i suoi discepoli, che siamo noi. È un’immagine molto profonda e suggestiva: cercando di spiegarla la si impoverisce, ma se non lo si fa, si rischia di non capire proprio nulla, nemmeno quel poco che riusciamo a dire.
Della vite o della vigna si parla più volte nel Primo Testamento; forse il brano principale è quello di Isaia 5,1-8 che si conclude così: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi. Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nel paese».
Da queste parole comprendiamo almeno che cos’è la vite non vera, e quali sono i frutti non buoni, quelli che Dio non approva: violenza, soprusi e avidità. Per contrapposizione possiamo intuire che i frutti buoni attesi da Dio vanno nella direzione opposta: giustizia, misericordia e generosità.
Tutto questo però di solito non avviene: la storia dell’umanità dimostra che questi valori vengono quasi sempre calpestati. Abbiamo bisogno di essere guariti, risanati, e questo non lo può fare un ragionamento astratto né uno sforzo di volontà: può farlo solo l’amore, un intenso trasporto che coinvolge pensieri, desideri e azioni… tutto il nostro essere.
Quel che contraddistingue la vita di Gesù mi sembra si possa riassumere con la parola dedizione: Gesù dona tutto se stesso con amore e per amore durante tutta la sua vita, fino alla fine, fino a quando dice ai suoi «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, per voi». Così anche i suoi discepoli sono chiamati a uscire da se stessi, a donare se stessi interamente come lui, con amore e per amore. Solo l’amore ci fa smettere di credere di essere il centro del mondo, ci fa uscire dall’egoismo e ci rende capaci di “dare la precedenza” a qualcun altro, di considerarlo più importante di noi stessi.
Ecco perché in cinque versetti (4-8) Gesù ci invita sette volte a rimanere (o dimorare) in lui: soltanto una vera passione, un’unione di amore affettivo ed effettivo ci può portare a vivere la stessa vita di Gesù. Ma cosa vuol dire dimorare in lui?
Prima di tutto ascoltare e mettere in pratica abitualmente le sue parole: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…» (v. 7). Discepolo è colui che impara, sempre: nel momento in cui smette di ascoltare e di imparare, smette di essere discepolo. Non possiamo dire di essere uniti a Gesù quando non ascoltiamo e non mettiamo in pratica le sue parole.
Poi – come minimo – non separarsi da lui: certamente rimanere in lui è molto più che rimanergli vicino, ma se ci si allontana dal suo Vangelo e si rompono le relazioni con quelli che lo vivono, la propria vita si “secca”, diventa sterile e improduttiva.
Ma il verbo ‘rimanere’ significa stare, avere stabilità, e il verbo ‘dimorare’ significa abitare, essere dentro e quindi anche essere di casa, avere familiarità, condividere vita, valori e scelte: non si tratta (solamente?) di pensare sempre a Gesù con tanto affetto, ma di lasciar fluire in noi la sua stessa “linfa”, la sua vita. Dare continuità in noi ai suoi desideri e alle sue scelte che poi sono quelli stessi di Dio. Dimorare e rimanere sono verbi che alludono alla contemplazione, ma non all’inazione: Gesù contempla sempre il Padre, ma non sta fermo. Così anche noi siamo chiamati a rimanere in lui nello svolgimento dei doveri quotidiani e nelle azioni di tutti i giorni.
Se quella che fluisce in noi è la linfa, la sostanza della vita di Gesù, i frutti che produciamo saranno i suoi stessi frutti, cioè la giustizia, la misericordia e la generosità. E forse un giorno ci accorgeremo che erano uniti alla vera vite dei tralci che credevamo lontani, mentre altri tralci DOCG producevano frutti che il Padre non ha gradito.
Meditazione 5^ domenica di Pasqua 28/04/2024
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