La Chiesa celebra da secoli la festa del Corpo e Sangue del Signore. Noi padovani probabilmente ricordiamo tutti il miracolo della mula di Sant’Antonio: un uomo aveva sfidato il Santo dicendo che avrebbe creduto alla trasformazione del pane in Corpo di Cristo solo se la sua mula, tenuta a digiuno, invece di andare verso la biada si fosse inginocchiata davanti all’ostia consacrata. Per secoli e secoli il punto è sempre stato questo: credere alla trasformazione (transustanziazione) del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo.
Io però, fin dall’infanzia, mi portavo dentro una domanda, non per spirito di polemica ma per desiderio di capire: “D’accordo – mi dicevo – se la Chiesa mi dice che è il Corpo di Cristo, ci credo, ma perché lo devo mangiare? Se Gesù vuole venire nel mio “cuore” – come mi dicevano – perché deve entrare nel mio stomaco? Dopotutto, il “cuore” nel quale Gesù vuole entrare è la mia anima, non quello fisico”. Ero un bambino strano: i miei amici in genere erano contenti di fare la comunione e si confessavano con riluttanza, mentre invece a me la confessione dava gioia e la comunione non la capivo. Queste domande me le sono portate dentro fino a quando in seminario ho cominciato a studiare teologia. Allora ho cominciato a capire qualcosa in più. L’ho raccontato ormai molte volte e per qualcuno sarà magari qualcosa di ovvio e scontato, ma per me è stata una specie di rivelazione: mi ha fatto passare da una devozione che non capivo a un gesto che impegna tutta la mia vita.
Gesù nell’ultima cena ha spezzato il pane e versato il vino nel calice e ha detto ai suoi discepoli di mangiare e bere, di nutrirsi non solo del suo corpo e del suo sangue, ma del suo “corpo dato per voi” e del suo “sangue versato per voi”. Nutrirsi del suo corpo spezzato e del suo sangue versato sulla croce vuol dire nutrirsi del dono di sé che egli ci ha fatto fino a soffrire e morire per noi, assimilare, fare nostro il suo sacrificio, farlo diventare nostra carne e nostro sangue, nostra vita.
Che cosa “nutre” la mia vita e il mio servizio? Che cosa mi dà la forza di andare avanti? Che cosa mi sostiene nelle prove della vita e del ministero? Dove posso cercare l’energia per ricominciare ogni giorno? In quale “cibo”? In Gesù, che «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
Ludwig Feuerbach diceva “noi siamo quel che mangiamo”: di certo non pensava all’eucaristia, ma se pensiamo fino a che punto siamo stati amati, se l’amore che ha condotto Gesù sul calvario diventa il nostro pane quotidiano, il centro dei nostri pensieri, il motivo ispiratore della nostra vita, se cerchiamo di vivere il mistero che celebriamo allora diventiamo anche noi oggi membra vive del corpo di Cristo, prolungamento del suo dono di vita per il mondo.
Anche nella catechesi ai bambini della prima comunione cerco di non dire mai solo “il corpo di Cristo”, ma di aggiungere ogni volta qualcosa che spero li aiuti a capire: “il corpo di Cristo che ha sofferto per noi”, “il corpo di Cristo che si è dato fino a soffrire sulla croce”, “il sangue di Cristo che è stato versato nella passione”.
Credere nella transustanziazione va bene, ma se non è la nostra vita a essere trasformata, se il corpo di Cristo nutrisse solo il nostro corpo e non i nostri pensieri, le nostre scelte, le nostre relazioni, allora saremmo come la mula del miracolo: si è inginocchiata davanti al Santissimo Sacramento, ma non è entrata veramente in comunione con il Signore.
Meditazione Corpus Domini 22/06/2025
da
Tag: